Gualtiero Jacopetti: cane sciolto in un Mondo Cane


“La cultura italiana è monopolizzata, per i ‘cani sciolti’ come me c’è poco spazio”. Così affermava Gualtiero Jacopetti in un’intervista anni fa, e proprio citando questa dichiarazione, la direttrice del Festival Internazionale del Film di Roma Piera Detassis presenta l’omaggio al regista di Mondo Cane e Africa Addio, appendice del festival, che si terrà presso la Casa del Cinema il 26 novembre.

Jacopetti incontrerà il pubblico per presentare ben due lavori che lo riguardano da vicino: il primo è il documentario di Andrea Bettinetti dal titolo L’importanza di essere scomodo: Gualtiero Jacopetti, che non ha trovato spazio nel corso del festival a causa di tempi tecnici troppo ristretti.
Il secondo è un suo lungometraggio inedito dell’84, Operazione Ricchezza, oggi riproposto grazie all’intervento di Lorenzo Micheli Gigotti di NERO Film, che ne ha scoperto l’esistenza intervistando il regista.

Un doveroso atto di riparazione nei confronti di un cineasta considerato scomodo, controverso e ‘politically uncorrect’, ma indubbiamente innovativo, visionario e profetico nel suo porsi costantemente controcorrente. Nato come giornalista, Jacopetti è noto come il creatore, insieme a Paolo Cavara e a Franco Prosperi, del genere cinematografico dei ‘Mondo movies’ – che si chiamano così proprio a partire dal suo Mondo Cane – documentari-shock a metà tra fiction e realismo che si distinguevano per la rappresentazione diretta di immagini violente e scabrose. Energico e brillante nei suoi 90 anni appena compiuti, Jacopetti risponde alle nostre domande con partecipazione ed entusiasmo, mettendo in luce la sua indole da autentico avventuriero.

Crede ancora che non ci sia spazio per i “cani sciolti”?
I documentari oggi si fanno partendo da tesi prestabilite. Mi sembra di vedere tanti lavori fatti su commissione e io non credo che sia l’approccio giusto. Per questo mi sento lontano da un autore come Michael Moore, che parte con una convinzione e costruisce tutto il lavoro nel tentativo di dimostrarla, senza mai mettersi in discussione. Io partivo invece con entusiasmo, gusto per la scoperta e spirito d’avventura, ma senza tesi: andavo a esplorare mondi sconosciuti e non sapevo cosa mi aspettava. In questo senso devo molto al produttore Rizzoli, che mi dava fiducia totale. Ovviamente non potevo scrivere un soggetto per un film come Africa Addio, ma Rizzoli, uomo di gran fiuto, mi sostenne in tutto e per tutto. Al giorno d’oggi, chi lo farebbe?

In questa occasione si presenta un documentario su di lei dal titolo “L’importanza di essere scomodo”. Non si può evitare di pensare alle accuse che le vennero mosse proprio in occasione dell’uscita di “Africa Addio”, quando fu tacciato di essere a favore del colonialismo…
Lungi da me fare vittimismo, ma sono stato attaccato come fascista e razzista – tutte cose lontanissime da me – solo perché dicevo la verità senza compromessi, sia con le immagini che con il commento parlato. Sono scomodo, forse sì, ma consapevolmente verso me stesso. In verità io amavo l’Africa, ancor prima di conoscerla. Per quelli della mia generazione, cresciuti leggendo Salgari, era sinonimo di evasione. Ai tempi non si viaggiava facilmente come oggi e anche andare a Parigi era un’avventura. Quando ho capito che l’Africa stava brutalmente trasformandosi ho sentito l’esigenza di partire per capire cosa stesse accadendo, ma non avevo programmato nulla. Ho scoperto quella realtà sul posto e ho detto ciò che accadeva, e cioè che i colonialisti se ne andavano lasciando il Paese in balia di satrapi senza scrupoli.

I moderni antropologi sostengono molto lo sforzo di cominciare una ricerca senza tesi, per non cadere vittime di pregiudizi ed etnocentrismo. È stato influenzato da qualche lettura in particolare in questo senso?
Onestamente mi è sempre venuto naturale. Nasco come giornalista, ho imparato il cinema quando mi hanno affidato la Settimana Incom. Avevo a disposizione metri e metri di pellicola, la colonna sonora, il montaggio e tutti gli altri orpelli che mi permettevano di comunicare le mie emozioni. Ma sempre restando onesto e attinente ai fatti.

Il suo ultimo film è “Mondo Candido” del 1975. Tecnicamente il suo unico film, inteso come opera di fiction. Ce ne vuole parlare?
Per me è stato un lusso poterlo fare. Esistevano già molte versioni dell’opera di Voltaire, e non avevano avuto gran successo al botteghino. Mi hanno sconsigliato tutti di farlo e avevano ragione, perché è stato un flop anche il mio. Ma sono felice di averlo realizzato, perché il Candido è universale. Credo di averci visto lungo anche lì: il finale con il fiume che si porta via i simboli delle ideologie dell’epoca prelude all’arrivo della crisi che si sarebbe verificata di lì a breve.

L’altro film che viene presentato in questa occasione, “Operazione Ricchezza”, è un suo inedito dell’84. Cosa ha fatto nei dieci anni che lo separano da “Mondo Candido”?
Semplicemente ho continuato a fare il mio lavoro, quello di giornalista.

Cosa ne pensa del cinema italiano di oggi e di ieri?
Continuo a dire di sentirmi più reporter che regista, ma amo molto andare al cinema, specie ora che ho più tempo. Devo essere onesto, però, i film italiani li salto tutti. So che sbaglio, so che è sciocco, e vorrei liberarmi da questo pregiudizio, ma è più forte di me. Mi dispiace dover dire questo, ma come vedete i compromessi non fanno proprio per me, ed è quello che penso. Io credo che il cinema italiano sia sempre stato prigioniero del suo provincialismo e della volontà di adeguarsi e conformarsi a certi schemi, anche politicamente. C’era sempre l’ansia di dimostrarsi antifascisti, e cose del genere. E poi erano tutti prodotti difficilmente esportabili: chi avrebbe capito la comicità di Sordi fuori dai confini nazionali? Ecco, io da quel cinema mi sono distaccato completamente e oggi non riesco proprio a vincere la mia scarsa voglia di vedere film italiani.

Questo l’ha influenzata in qualche modo nel suo lavoro?
Assolutamente no. Avrei fatto lo stesso ciò che ho fatto, non mi lamento e non ho desiderio di rivincita. I produttori de L’importanza di essere scomodo lo sanno bene: hanno dovuto insistere parecchio per convincermi a partecipare.

Ci racconti più nel dettaglio “Operazione Ricchezza”…
Ringrazio innanzitutto Lorenzo Micheli Gigotti di “NERO Magazine”, che intervistandomi ha scoperto l’esistenza di questo inedito e ha insistito perché venisse fuori. Il progetto affonda le radici addirittura nel dopoguerra, quando ci si arrangiava per raggranellare un po’ di soldi e ritrovare il proprio posto di lavoro. A Viareggio, dove ho vissuto per un certo periodo della mia vita, c’era una famiglia, i Barzanti, che costruiva barche da pesca recuperando pezzi di lamiera dagli aeroplani caduti in guerra. Poi si imbarcavano e andavano a venderle in Venezuela. Allora lavoravo per il ‘Corriere della Sera’ e proposi al direttore di imbarcarmi con loro per realizzare un reportage. Fu un’avventura incredibile: si mangiava carne di delfino – immangiabile, vi assicuro – perché non c’era altro, e alle Canarie raccogliemmo dei profughi del regime di Franco e li imbarcammo con noi in cambio di lavoro. La traversata durò 27 giorni. Tornato in Italia, vendetti il pezzo e pensai che l’epopea fosse finita lì. Dopo 50 anni mi arriva invece una telefonata dall’Ingegner Barzanti senior, che con tono severo mi dice: ‘lei ha cominciato, lei deve finire. Sto morendo, ma ho fatto tanti miliardi e voglio lasciare un segno di me.’ Ero perplesso, ma mi mandò a prendere da una Rolls Royce all’aeroporto di Caracas, mettendomi a disposizione un aereo e un elicottero per i sopralluoghi. Ai tempi l’azienda stava costruendo la seconda diga più importante dell’Orinoco. Era un lavoro impressionante, ma tutto tecnica. Non sapevo come approcciare l’argomento…

E come ne è venuto fuori ?
Sono andato alle origini del fiume, che inizia con una cascata che viene giù da una zona inesplorabile. Grazie all’influenza di Barzanti sull’esercito locale siamo riusciti a salire sul passo con un elicottero speciale, e ci abbiamo trovato i resti del velivolo di Angel, un pilota americano che si era schiantato sul colmo della cascata. Lì ho capito che c’era materiale per un film. Un’opera industriale ma soprattutto una storia sul fiume e sui suoi personaggi, come i cercatori d’oro che ho incontrato. Vivono in maniera improbabile, trovando ogni tanto una pietra e componendo poesie. Molti sono italiani. Io questo film l’ho visto solo una volta per il controllo della copia alla Technicolor. Non mi ricordo assolutamente il mio giudizio. Lo vedrò dunque alla Casa del Cinema con molta curiosità.

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25 Novembre 2009

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