L’intervento di Morando Morandini, che ospitiamo con alcuni tagli e in due parti, verrà integralmente pubblicato dal prossimo numero della rivista del Sncci “Cinecritica”
Sono convinto da circa trent’anni di vivere in un paese di marmellata isterica. Da qualche anno ho la tentazione di sostituire il sostantivo con una parola più scatologica, ma, benché una metafora biblica indichi il denaro come sterco del demonio, ci rinuncio per buona educazione.
Come si manifesta l’isteria nel campo che ci riguarda, il cinema? Fino a vent’anni fa press’a poco era disdicevole per un critico cinematografico serio occuparsi, o preoccuparsi, degli incassi di un film se non in circostanze speciali o per dati generali. Non era compito suo. Anzi se un film aveva un largo successo di pubblico – o se si presumeva che potesse averlo – nei critici spesso scattavano le molle della diffidenza, del discredito, del dubbio: più alti gli incassi, secondo certi intenditori, meno favorevole il giudizio. Badate che queste molle, talvolta connesse con quella inconscia dell’invidia, funzionano ancora a un altro livello. Per dieci anni Silvio Soldini è stato un regista di scarso successo al botteghino, ma assai stimato dalla critica. Nel Nord più che a Roma, ma non importa. È bastato che Pane e tulipani incassasse più di dieci miliardi, fosse pluripremiato (anche troppo) al Donatello e molto venduto all’estero per indurre i critici delle riviste a fare riserve, a dire che è una commedia troppo gradevole, a parlare di compromesso.
Perché sempre più spesso le recensioni cominciano con informazioni sui sorprendenti o deludenti incassi del film in questione, se è nordamericano, oppure sul suo potenziale commerciale se è italiano?
Perché sui giornali e in televisione si continua a scoprire l’acqua calda, mettendo in rilievo nei bilanci mensili o annuali che i primi dieci e venticinque posti della classifica degli incassi sono in gran parte occupati dai film nordamericani? Non succede lo stesso fenomeno in tutti i paesi europei, Gran Bretagna compresa? Perché si parla sempre di incassi e quasi mai di costi? Se Malèna di Tornatore, costato venti miliardi, ne incassa sul mercato nazionale otto, mentre Pane e tulipani di Soldini che è costato quattro volte meno ne incassa più di dieci, qual è tra i due il film di successo? Se Almost Blue di Infascelli, un’opera prima, è costata non più di due–tre miliardi e ne incassa altrettanti in Italia, mentre un qualsiasi film hollywoodiano su un serial killer ne costa dieci o venti volte tanto, da che parte sta il successo? Chi mi sa spiegare perché spesso in coda ai TG della Rai – non in rubriche di varietà o di spettacolo – si dedicano servizi giornalistici all’ultimo blockbuster, approfittando della presenza a Roma di un divo o preteso tale? Delle due l’una: o è il frutto della linea politica generale dell’azienda pubblica, quella della rincorsa agli indici di ascolto in lotta con la concorrenza della privata Mediaset o in Rai c’è qualcuno che incassa sottobanco mance o altri piaceri similari. E non so quale sia l’ipotesi peggiore. Chi mi sa spiegare perché quando un film italiano che sul nostro mercato ha avuto soltanto un successo di stima, colleziona premi in festival stranieri minori (esclusi Cannes e Berlino), i giornali e le tv non ne danno quasi mai notizia o la riducano a poche righe sotto un titolo a una colonna? Cito i casi di Garage Olimpo e Sangue vivo, ma potrei fare altri esempi.
Nel giornalismo italiano esistono i tuttologi, professionisti arguti che hanno la battuta facile e si dedicano con fervore scintillante a graffiare usi e costumi del paese in cui viviamo, passando con effervescente disinvoltura dalla politica all’ecologia, dalla scienza alla storia patria, dalle arti alle cucina. Parlo di Curzio Maltese, di Massimo Granellini, Angelo Guglielmi e di tanti altri. Quando la cronaca offre il destro di occuparsi del cinema italiano, quali sono i loro argomenti? Primo: al loro meglio, i film italiani sono “carini”, aggettivo vezzeggiativo che da vent’anni si è caricato di una complessa simbologia negativa, ormai diffusissimo anche nel linguaggio parlato con la stessa frequenza a vanvera di “mitico”; secondo: i film italianI sono pinguemente sovvenzionati dallo Stato, cioè col denaro pubblico grazie ad appoggi politici di sinistra e il pubblico non va mai a vederli; terzo: dei pochi film drammatici di impegno sociale e politico, si parla in tono di velato disprezzo come se l’impegno fosse una parolaccia, un valore fuori moda, datato, sdato che sottintende noia, pesantezza, predica, schematismo, tesi; quarto: quando sono costretti a citare l’unico attore/maschera/regista italiano di successo internazionale – parlo di Benigni – lo fanno col cauto rispetto che si deve al denaro, cioè agli incassi. Qui, oltre all’invidia, emerge la tipica supponenza delle mezzecalze intellettuali verso il comico. Ne scrivono con la sottile, velata ironia spregiativa che si ha verso un clown, quell’ironia che molti hanno usato con Dario Fo, premiato col Nobel della letteratura.
Cambio argomento. I responsabili del mensile “Cineforum”, una delle migliori riviste italiane di cinema, hanno fatto durante l’anno una lista di cento registi da portare nel 2000. Chi conosce “Cineforum” sa che non è una rivista sciovinista. In quella lista i registi italiani sono ventuno, comprese le coppie Ciprì/Maresco e Ricci Lucchi/Gianikian di cui i tuttologi dianzi citati ignorano persino l’esistenza e il nome. La lista comincia con Gianni Amelio e termina in ordine alfabetico con Roberta Torre. Ne sono esclusi, tanto per fare i nomi più noti, Scola, i Taviani, Tornatore. Dunque una lista di tendenza, quindi discutibile. Ma ventuno nomi su centoventicinque, più del 15%, sono una bella cifra, a parer mio, per una cinematografia che dovrebbe essere in coma, forse morta o forse soltanto svenuta e che, comunque, difficilmente trova il pubblico che meriterebbe. Nessuno, però, dice che i giovani d’oggi – in Italia come altrove costituiscono circa il 70% di quella minoranza dei cittadini che ancora vanno al cinema – sono non soltanto più ignoranti, regrediti, ansiosi, disperati (uno su dieci in preda alla depressione secondo gli ultimi sondaggi), vittime e complici degli apostoli del profitto, del consumismo imperante del culto del denaro come supremo valore della vita, politicamente più disimpegnati e a buon diritto delusi, ma anche succubi e plagiati nell’inconscio dal basso livello generale della televisione, da una programmazione cinematografica – in gran parte nordamericana – che, tolte le rare eccezioni, esclude i film di qualità dalle ore di alto ascolto.
Esaminiamo pure l’elenco dei diciotto film italiani selezionati per concorrere alle Grolle d’oro. Mi limiterò a raggrupparli secondo i temi o, se preferite, i generi.
C’è un terzetto di film in costume: Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti (fine del ‘500, stregoneria, inquisizione), Rosa e Cornelia di Treves (fine del ‘700, la condizione della donna), Il mnemonista di Paolo Rosa. C’è una mezza dozzina di film sul passato prossimo o remoto della società italiana: Il partigiano Johnny di Chiesa, Placido Rizzotto di Scimeca (anni ’40), Il manoscritto del principe di Roberto Andò (anni ’50), La seconda ombra di Agosti (anni ’60), I cento passi di Giordana e Tutto l’amore che c’è di Rubini (anni ’70), Nella terra di nessuno di Giagni (anni ’80). Quattro di questi si potrebbero anche classificare come film biografici.
C’è un gruppetto di film regionali che in vari modi si cimentano con la tematica del Sud, questa piaga irrisolta della storia d’Italia: Sangue vivo di Winspeare, Sud Side Stori di Roberta Torre, Lontano in fondo agli occhi di Giuseppe Rocca, esordiente tardivo e notevole.
Non mancano i film interessanti che lavorano all’interno di un genere come Qui non è il paradiso di Tavarelli, Almost blue dell’esordiente Infascelli, Nella terra di nessuno di Giagni.
Non mancano nemmeno i film di ricerca. Qui a Saint Vincent abbiamo un ottimo esempio in Il mnemonista, ma non sono stati selezionati né Tartarughe col becco d’ascia del teatrante Antonio Sixty né Temporale, girato in Jugoslavia dal veterano G. V. Baldi.
C’è infine il territorio della commedia rivisitata. Vi rientrano Tutto l’amore che c’è di Rubini, La lingua del santo di Mazzacurati, Denti di Salvatores. E vogliamo buttare via Pane e tulipani e Fuori dal mondo di Piccioni che hanno trovato anche il loro pubblico?
Non mi sembra un panorama così deludente e non ho messo nel conto Bellocchio e Bertolucci, La balia e L’assedio.
SEGUE
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