Marzo 1924, nasce la stella della diciannovenne Greta Lovisa Gustafsson in arte Greta Garbo. L’occasione le è offerta dal finlandese di origine polacca Mauritz Stiller che in Svezia aveva trovato fama e spazio al Lilla Teatern di Stoccolma (succedeva a August Strindberg) per poi passare al cinema già nel 1911 diventandone uno dei maestri al tempo del muto. Per La leggenda di Gosta Berling (noto in Italia col titolo I cavalieri di Ekebù) che debutta nel 1924 con una singolare distribuzione in due tempi, Stiller le affida un ruolo significativo e positivo, quello della giovane Elizabeth, contessa Borg, moglie di Henrik. La complessa struttura del racconto, derivato da un best seller del tardo ‘800 di Selma Lagerlof, con il passaggio tra passato e presente, ha per perno centrale le disavventure di Gosta – prima pastore luterano in odore di peccato e poi cavaliere redento alla “tavola rotonda” di Ekebù, ospite della mutevole Margaretha – fino alla rivelazione che l’uomo ama proprio Elizabeth e potrà averla solo dopo che il matrimonio della ragazza risulta nullo.
Forgiata in oltre un anno di preparazione e riprese dal suo regista che l’aveva prelevata insieme all’altra debuttante, Mona Mårtenson, nel suo teatro, Greta ha tempo di diventare maggiorenne e di emergere per bellezza, sicurezza, modernità di recitazione. Tanto che, all’indomani del successo in patria nonostante un’uscita accolta freddamente dalla critica, regista e attrice vanno in Germania nell’agosto del 1924 per una “prima” già molto attesa. Qui Greta incontra George W. Pabst che le offre il ruolo da protagonista ne La via senza gioia, ma anche Louis B. Mayer che le offre un contratto. Greta accetta di salire a bordo del transatlantico che la porterà in America, ma solo a condizione di avere con sé il suo pigmalione.
Qui le strade dei due eroi della “Saga” si divideranno presto: a lei fu riservato un trattamento da futura diva con intervento dentistico, scuola di dizione in inglese, ferrea dieta, aggiustamento nell’abbigliamento e una nuova guida artistica nella persona del mitico talent scout Irving Thalberg. Ben diversa invece la sorte del più maturo Stiller, messo da parte dai produttori quasi subito, vittima di una grave malattia e risoluto a tornare a casa dopo appena due film senza mai aver avuto la possibilità di dirigere la sua protetta. Garbo invece debuttò con un successo – Il torrente – nonostante detestasse il copione, il suo partner Ricardo Cortez, il nuovo modo di girare e già alla pellicola successiva La tentatrice ebbe il nome in cima ai titoli di testa pur dovendo accettare che Fred Niblo sostituisse Stiller dopo soli 10 giorni di riprese.
Di lei ormai si leggeva su “Variety”: “È la vera scoperta dell’anno, un’attrice convincente, con una personalità magnetica”. Il seguito è noto, tra la costruzione del mito ai tempi del Muto con una ventina di ruoli da seduttrice (cosa che detestava e che fece di tutto per sconfiggere) e poi, – finalmente – il debutto con la sua voce in Anna Christie del 1930. Forse a causa della sua timidezza, forse a causa della sua avversione al sistema soffocante dello studio, iniziò ad avanzare anche altre pretese: non voleva visitatori sul set e pretendeva dei paraventi per non essere disturbata dalle maestranze. Iniziò anche a chiedere un salario più alto ad ogni nuovo film. Tutte le richieste venivano sempre accettate dai dirigenti della MGM tranne appunto il passaggio al Sonoro che accadde solo quando alla MGM pensarono che il personaggio si adattasse alla pronuncia europea della protagonista.
L’evento fece clamore con un tambureggiamento mediatico senza precedenti: “Garbo Talks” e la prima frase pronunciata dalla Divina divenne presto iconica: “Gimme a whisky, ginger ale on the side, and don’t be stingy, baby!”. Era un contrasto evidente con l’aura di bellezza esotica e lontana che lo Studio le aveva fabbricato e raddoppiò l’attrazione per il suo accento svedese. Fu gloria breve come si sa: già nel ’41 dopo un insuccesso inatteso (Non tradirmi con me di Cukor e ad appena due anni dal trionfo brillante firmato Lubitsch con Ninotchka) l’attrice si ritirava dalle scene. All’inizio sembrò una decisione legata alla guerra in Europa. Poi divenne definitiva e nessuno più la vide o poté intervistarla fino alla fine, nell’aprile del 1990. Oggi la sua lapide sta nel cimitero di Stoccolma per volere della sua famiglia. In tutto di lei ci restano due interviste – entrambe degli anni Venti – e 25 film americani (contando anche la doppia versione di Anna Christie per il mercato europeo) cui vanno aggiunti gli esordi in patria e la breve parentesi tedesca. Già perché Greta Gustafsson aveva già conosciuto il cinema prima dell’incontro fatale con Mauritz Stiller.
Fin da piccola – lo racconta lei – preferiva mettersi in scena da sola nella cucina di casa piuttosto che giocare con le amichette. Aveva il teatro nel sangue, ma le modeste condizioni della famiglia (il padre era un netturbino) non le permettevano grandi sogni. A 15 anni rimase orfana di padre, andò a lavorare ma le continue avance dei clienti le fecero lasciare la barberia dove aveva cominciato per passare ai grandi magazzini di Stoccolma. Furono due brevi film pubblicitari commissionati dalla ditta a farla notare e il vero debutto risale al 1922 con un piccolo ruolo in Luffar Petter. Sembrava una parentesi, ma fece decidere a Greta di seguire il suo istinto fino a vincere una borsa di studio dell’Accademia Reale per poi entrare al Lilla Teatern.
Che cosa fa di Garbo (nome d’arte adottato sembra in omaggio a un re ungherese del ‘600) la Divina per eccellenza, unica star che fin dal 1928 – quando interpretò La donna divina di Victor Sjostrom – ha avuto diritto ad essere citata così? C’entrano per prima cosa i cromosomi: dalla mamma di origine lappone Greta eredita gli zigomi alti, lo sguardo lungo e languido, la tempra di chi non ha avuto nulla in regalo dalla vita. Dalla sua infanzia si porta dietro il carattere mutevole e solitario, la passione per l’arte, la ricerca di un padre che troverà prima in Stiller e poi nell’unico attore capace di capirla a Hollywood, quel John Gilbert che le fu partner e amico nei giorni gloriosi del Muto, ma che poi non accettò di sposare, gelosa della sua indipendenza e refrattaria ai matrimoni combinati nel quadro etico imposto dagli Studios. Forse nasce proprio da quest’episodio la leggenda – per molti versi reale – dell’omosessualità della Divina che certo amava vestire con inusuali, per l’epoca, fogge maschili ed ebbe una appassionata relazione con la poetessa femminista Mercedes de Acosta. Ma altrettanto documentata fu la sua passione per il compositore Leopold Stokowsky, conferma di un’indipendenza risoluta che sfidava ogni forma di conformismo e giudizio. Chiusa nel suo attico sulla 52ma strada a Manhattan, con gli specchi velati e una serie di capolavori di Renoir alle pareti, Garbo non volle più avere alcun rapporto col cinema fino alla fine. Ed è anche quest’aura di intangibilità, il muro da lei eretto tra il mito e la realtà, ad averla trasformata nell’icona immortale del divismo.
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