‘Grand Tour’, Miguel Gomes: “Il mio cinema vuole mostrare le stelle, ma anche il Big Bang”

CinecittàNews incontra il regista portoghese impegnato a presentare le anteprime italiane del suo film, premiato a Cannes per la Miglior Regia e designato dal Portogallo per la corsa all’Oscar. L’intervista


Sarà una risata che vi incanterà (o vi respingerà).

Parliamo della particolarissima risata di Molly, interpretata da Crista Alfaiate (nella foto qui sotto), la protagonista femminile di Grand Tour, il film di Miguel Gomes con Gonçalo Waddington che il regista sta accompagnando nelle anteprime italiane in attesa dell’uscita in sala del 5 dicembre.

Acclamato dalla critica internazionale, il film è una co-produzione franco-italo-portoghese, premiata all’ultimo Festival di Cannes per la Migliore Regia, al Chicago International Film Fest 2024 per la Miglior Regia e il Miglior Montaggio, al belga Film Fest Gent per la Migliore colonna sonora, designata dal Portogallo per la corsa agli Oscar (leggi qui il nostro articolo da Cannes).

 

“Il 50% del pubblico ha amato la risata di Molly, l’altra metà invece l’ha detestata, odiata”, ci racconta Miguel Gomes, a sua volta ridendo. “Di sicuro non c’è nessuno a cui quella risata è rimasta indifferente. Noi abbiamo deciso che quella doveva essere la prima caratteristica distintiva del suo personaggio, tanto importante quanto le cose che lei dice. Con Christa abbiamo trascorso la prima giornata di prove a cercare di scoprire come lei dovesse ridere: è stata una giornata strana e anche un po’ stupida, abbiamo provato soltanto le risate. È stata lei a propormela così com’è nel film, e io l’ho trovata molto interessante. Da un lato è una risata po’ ‘punk’, e da un altro è anche un po’ fastidiosa… ma è proprio il tipo di risata che ti attira, che ti fermi ad ascoltarla, a guardarla. E noi volevamo che fosse un segno di quella che è la sua forte e grande personalità. Al contempo, è qualcosa anche un po’ ‘antisociale’, perché si presume che non si rida così in pubblico…E io sono sempre attirato dalle cose che le persone fanno e che si presuppone non debbano fare. Questo è quello che mi interessa anche nel cinema!”

 

Il covid ha creato forse anche una necessità di ricorrere ai teatri di posa, ma quella di Grand Tour sembra decisamente una ricerca voluta, sulle varie forme di racconto che il cinema può utilizzare. Fino al concetto stesso di narrazione (dalle ombre cinesi alle marionette, fino agli intervalli musicali)… Un mix magico tra realtà e immaginazione, che non riguarda però solo il lato tecnico ed estetico, a partire dalla scena in cui si svela perfino il “trucco” numero uno, il cinema stesso. Che genere di film ha voluto realizzare?

“È un ottimo modo per definire qual’è il mio interesse per cinema. C’è stato in effetti un momento molto interessante, in cui abbiamo fatto il film come se ci trovassimo dal punto di vista dello spettatore: ovvero, abbiamo cercato di fare un film in cui la finzione comincia a crescere proprio mentre lo stai facendo. Quindi lo spettatore non vede un film in cui la finzione è già stata decisa e realizzata in precedenza, e lui vede solo il prodotto finito. Ma al contrario, vuole essere un film in cui lo spettatore partecipa alla sua stessa realizzazione, è coinvolto nel suo sviluppo. Io non conosco nulla di fisica, ma sappiamo tutti che tutto è iniziato con il Big Bang. Quindi quello che io voglio fare è mostrare le stelle allo spettatore, facendogli al contempo vivere il momento stesso del Big Bang”.

Le magnifiche riprese dal vivo in Cina, Giappone, Thailandia, Vietnam, Singapore e Filippine, girate subito prima della pandemia di Covid, si alternano a quelle più elaborate, ricreate in studio tra Roma e Lisbona, stavolta con gli attori, che non hanno mai messo piede in Asia. Riprese in bianco e nero ma anche a colori, ambientazione nel 1917 ma con telefoni cellulari… per un viaggio magico e totalmente immersivo nello spazio-tempo, senza bisogno di ricorrere ad alcun effetto hi-tech. Come già in Aquele Querido Mês de Agosto, il film sembra costruito sull’idea che la favola e realtà possano coesistere, un tema ricorrente per lei

“È assolutamente vero: anzitutto perché nel cinema c’è un effetto speciale unico e molto particolare, che è il montaggio, con il quale puoi passare da un tempo all’altro semplicemente con un ‘cut’, tagliando e montando: è qualcosa di meraviglioso. E l’altro effetto speciale è lo spettatore stesso: è lui che accetta o non accetta di creare una continuità tra tempi e momenti diversi. Ed è proprio questo che mi piace: l’idea dell’immaginazione, e di questo passaggio tra la realtà e l’immaginazione. Perché credo che questi due elementi abbiano assoluto bisogno l’uno dell’altro, di scambiarsi, alimentarsi reciprocamente. Ad esempio non credo a quel tipo di cinema rappresentato di film della Marvel, dove tutto sembra rinchiuso all’interno di una ‘bolla’, senza nessun tipo di rapporto con la vita, la realtà, e dove loro fanno esclusivamente riferimento a se stessi, definendosi non a caso ‘universo’, scollegando del tutto la realtà e la fantasia. Come al tempo stesso non mi piace quel modo di girare soltanto la realtà, in modo rigorosamente naturalista, ma non è per me: io ho bisogno che l’immaginario dia qualcosa alla finzione e viceversa”.

 

Il cinema documentario portoghese ha una fortissima tradizione, che ha solo toccato il culmine e il suo protagonismo nella Rivoluzione dei Garofani, come recentemente ha mostrato molto bene il film Sempre di Luciana Fina. Che rapporto sente di avere con questa prestigiosa tradizione?

 “Il mio è un rapporto molto forte con il cinema portoghese tutto, che per me è ben definito da uno dei più grandi maestri, Manoel De Oliveira: lui è il regista che considero il più importante, che negli anni ’60 e ’70 girò due film fondamentali per la storia del cinema. Nel primo, non particolarmente famoso, Acto de primavera (1963), c’è una strana passione di Cristo, raccontata in maniera molto particolare, in un paesaggio molto fisico e brutale, pieno di rocce, interpretato non da attori ma dalla popolazione locale di un piccolissimo villaggio del nord portoghese, dove questa passione viene rappresentata. Quindi l’elemento quasi ‘documentaristico è una versione della passione scritta nel XV- XVI secolo, ma poi è come se fosse trasportata indietro a oltre 2000 anni fa – al tempo di Cristo appunto – e poi ancora nel presente, con le immagini di oggi. Questo passaggio tra questi tre periodi è molto sofisticato, che mostra anche la materialità delle cose. Io tra l’altro ho visto anche questo film in Grecia, proiettato su una parete scavata nella roccia, mi ha emozionato e commosso moltissimo. Poi c’è un altro suo film, Amor de Perdição (1978) un altro film importantissimo, distintivo: due film che rappresentano due punti di riferimento”.

Miguel Gomes, foto di Patricia Neves Gomes

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28 Novembre 2024

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