L’industria di anime e manga, tra le massime espressioni della cultura giapponese, è oggi una delle più floride al mondo, anche in Italia. Lo sanno bene le librerie, sempre più popolate di fortunati volumi a vignette; i cinema, che con le proiezioni evento di film tratti da anime fanno cassetta; le piattaforme, intenzionate come non mai a investire in adattamenti live action delle saghe giapponesi più amate, come la serie di One Piece in arrivo su Netflix. Eppure, c’è stato un momento in cui lo stile giapponese, in Italia, raccoglieva per lo più detrattori, soprattutto da parte di intellettuali e punti di riferimento della cultura. Un caso eclatante è quello di Goldrake, che 45 anni fa apriva la pista italiana dei robottoni giapponesi, presto simbolo di una generazione cresciuta, per la prima volta, con un inedito sguardo a Oriente.
Il 4 aprile del 1978 andava in onda in Italia Atlas UFO Robot, ovvero UFO Robot Goldrake, tratto dall’omonimo manga del Maestro Go Nagai. Erano le 18.45 e su Rete 2 partiva Buonasera con…Superman – Atlas Ufo Robot, introdotto dall’annunciatrice RAI Maria Giovanna Elmi. I piccoli spettatori seduti davanti alla tv non sarebbero più stati gli stessi. La confusione nei titoli e negli adattamenti di quegli anni raccontano una cultura pop ancora tutta da digerire, capire e proporre. Ma con un po’ di ingenuità e sfida, l’arrivo della prima serie robotica giapponese si rivelò una scommessa vinta. “Mangia libri di cibernetica, insalate di matematica, e a giocar su Marte va”, recita la più esotica delle sigle mai risuonate all’epoca nei tubi catodici italiani: “si trasforma in un razzo missile con un circuito di mille valvole” non significa forse molto, ma era di certo la promessa di avventure straordinarie.
Qualcuno non condivideva l’entusiasmo per il gigante di ferro giunto in Italia. “E io sono pronto ad andare in televisione per battere quei robot”, recitava un articolo firmato da Dario Fo. La critica mossa a Goldrake si concentra su vari aspetti, a partire dalla divisione tra bene e male proposta dalla serie, troppo netta e semplicistica. “Goldrake ha tutte le carte in regola per affascinare il suo pubblico”, riconosceva Dario Fo elencando i colori stupendi e le macchine fantasiose e infondo credibili, “ma il male è sempre orrido, laido, mostruoso e a un passo dalla vittoria finale”. Al centro di Goldrake vivrebbe un solo sentimento, “l’odio per il nemico e la lotta tremenda senza esclusione di colpi”.
Goldrake, per Dario Fo, era il diretto erede di S. Giorgio, elogio di una casta di aristocratici illuminati: ieri i cavalieri, oggi i robottoni. “È il discendente di questa deteriore forma di spettacolarità teatrale delle parabole proprie del cattolicesimo feudale”. Un giudizio senza mezza termini, che chiama in causa anche il collega spaziale Mazinga e infine si allarga a un’analisi piuttosto avanti coi tempi sul fenomeno della spettacolarità in televisione: “il discorso è generale e riguarda anche tutto quel filone di telefilm polizieschi americani. […] Certo oggi la TV è una moderna baby sistter, surrogato della mancanza di spazi pubblici. Niente censura, ma controspettacolo per smitizzare, per battere Goldrake“.
Oggi lo sappiamo, hanno vinto i robottoni. Ma l’idea di un controspettacolo, senza censura, una sfida creativa ai prodotti esteri capaci di sintonizzarsi meglio con i giovani, ieri come oggi, è ancora auspicabile e stimolante. L’analisi di Fo è però parziale e a uno sguardo contemporaneo di certo approssimativa. Già all’epoca i giovani spettatori glielo fecero notare: “I vostri figli possono diventare terroristi non perché guardano Goldrake, ma perché voi li costringete ad accettare le vostre scelte”, rispose al futuro premio Nobel una fan dell’anime giapponese, la quattordicenne Edvige Lauria.
Tra gli intellettuali italiani ad accogliere a braccia aperte Goldrake ci fu chi i giovani li capiva come nessuno, Gianni Rodari. Già nel 1952 lo scrittore per ragazzi aveva difeso i fumetti dall’efferato attacco condotto da Nilde Jotti sulle pagine di “Rinascita”. Goldrake come Ercole moderno, scrive, metà uomo e metà Dio, ma anche metà macchina spaziale che parla e interagisce col bambino, capace di capirne i valori e crescere, proprio come nelle fiabe: “I bambini giocano a fare Goldrake perché non vogliono subire Goldrake, ma lo vogliono usare loro stesso”.
Le querelle sulla violenza e i valori dell’intrattenimento hanno lunga storia nella cultura italiana, e arrivano fino a noi tramutate in riflessioni sui videogiochi o sulla mania supereroistica. Gli estremi offerti da Fo e Rodari sono un buon riassunto, ma la cultura segue vie tutte sue, e il vincitore lo sceglie lo spettatore.
Se dopo 45 anni la sigla italiana di Goldrake, remixata per l’anniversario allo scorso Romics da Maestro Vince Tempera e DJ Massimo Alberti, è ancora conservata per intero nei ricordi di una generazione – oggi raccolta con un po’ di malinconia nella folte sezioni commenti dei tributi alla serie condivisi su YouTube – qualcosa vorrà dire. Anche se la risposta migliore è il presente, con la sua ricca e fortunata offerta di robottoni, variopinti eroi di anime e paladini spaziali che popolano cinema, serie e videogiochi. “Perché il bene tu sei, sei con noi”.
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