L’atteso ritorno del premio Oscar Giuseppe Tornatore dietro la macchina da presa, dopo Malèna del 2000, è un thriller duro e violento. Un giallo che ruota attorno alla figura della “sconosciuta”, una ragazza ucraina (Ksenia Rappoport) che ha vissuto violenze sessuali e psicologiche e, quando arriva nella indefinita città immaginata dal regista, è pronta a tutto pur di introdursi nella vita di Valeria (Claudia Gerini), ricca borghese con un marito assente e una figlia che soffre di una strana malattia che la rende incapace di evitare di ferirsi. Nella sezione Premiere della Festa di Roma, che attraverso Goffredo Bettini ha ringraziato il “grande maestro di aver partecipato a questa prima edizione, che finora è una scommessa vinta”, La sconosciuta gode di un cast notevole. Michele Placido nei panni di Muffa ripugnante mercante di prostitute e di bambini, Piera Degli Esposti in quelli di una domestica, il marito di Valeria Pierfrancesco Favino, il portinaio Alessandro Haber e Margherita Buy, che appare in un cameo finale. Il film arriverà in circa 300 sale – distribuito da Medusa – a ridosso della Festa, venerdì 20 ottobre, dopo aver avuto successo alla Business Street, da cui sono scaturite numerose trattative per le vendite estere.
Tornatore, la storia nasce da un preciso fatto di cronaca?
Anni fa lessi una notizia che riguardava una donna che, con la complicità del marito, faceva i figli su ordinazione. Ma il film si allontana molto da quello spunto, anche perché certe storie accadono ovunque. Ho scelto infatti un registro di mistero piuttosto che di denuncia. Credo che il cinema di denuncia non abbia nemmeno più ragione di esistere. Poi ho creato un luogo, un clima, uno stile, e con il cast ho raffigurato schematicamente il senso della storia, con al centro un’attrice sconosciuta al pubblico italiano e attorno un coro di volti noti.
Il film è ambientato a Trieste, ma è molto difficile riconoscere la città nelle sue immagini.
L’idea era quella di ambientare La sconosciuta in una città immaginaria, non reale. Non volevo nascondere nulla, ma intendevo sfuggire al rischio di legare i fatti a una città precisa e connotare così troppo realmente la drammaturgia. Ho scelto Trieste perché mi sembrava una città giusta per girare, ma ho voluto trasfigurarla completamente.
La sconosciuta è molto diverso dai suoi film precedenti.
Non ho questa consapevolezza. Anche il mio primo film, Il camorrista, era duro, violento, incalzante, ed è un genere di cinema che mi piace e non mi è estraneo. Semplicemente in seguito non ho più avuto occasione di esprimermi in questo registro.
Quali sono state le difficoltà maggiori nel girare questo film?
Nonostante nel mio cinema abbia avuto spesso a che fare con i bambini, con cui ormai ho una certa dimestichezza, le scene più difficili sono state quelle con la bambina, Clara Dossena. Vista la natura del film, mi tremavano i polsi… Ma sono stato fortunato con lei, che è intelligente e ricettiva, e con i genitori, che hanno capito e agevolato le riprese.
Perché dopo tanta durezza ha chiuso con un finale consolatorio?
Non ho pensato se trattare bene o male il pubblico, quindi non ho nemmeno voluto dargli una carezza finale. Ho scelto piuttosto di sottolineare un’abitudine del nostro tempo, quella di delegare tutto della nostra vita, persino la gestione degli affetti, chiedendomi dove si arriva se si agisce così. E il finale non è altro che il risultato di tutta la storia, una sorta di ricompensa per la protagonista per l’unica cosa buona che ha fatto nella sua vita.
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