“Il sadomasochismo è la metafora di ciò che il potere fa del corpo umano”. La voce di Pasolini strazia anche più delle immagini del Salò, l’insostenibile capolavoro del regista, intellettuale, poeta, per qualcuno profeta. Le parole sono quelle di una lunga intervista raccolta da Gideon Bachmann sul set di quello che sarebbe divenuto l’ultimo film; le immagini, come in un disturbante “fotoromanzo”, sono una (minima) parte degli scatti di Deborah Beer, puntuale documentazione del modo di lavorare di Pier Paolo, testamento visivo e angosciosa via crucis.
Diciamo che le parole sono l’etica e le immagini l’estetica: il lavoro di Giuseppe Bertolucci che ce le ripropone (Pasolini prossimo nostro), prodotto da Angelo Draicchio con Ripley’s Film e Cinemazero, alla Mostra come evento speciale di Orizzonti, hanno fatto il tutto esaurito qui a Venezia lasciando fuori dalla sala molti giovani. Quei giovani di cui Pasolini parla con una lucida analisi di quella che sarebbe diventata la società del Grande Fratello: vittime designate del consumismo, oggetto della manipolazione dei corpi e della seduzione del potere, preda della dittatura della (falsa) liberazione sessuale. “Non mi illudo di essere capito dai giovani, perché la gioventù oggi è diventata odiosa”, diceva allora Pier Paolo. A Giuseppe Bertolucci, che Pasolini l’ha portato anche a teatro con Il Pratone del Casilino e Na specie de cadavere lunghissimo abbiamo fatto qualche domanda su questo documentario che sarà presto reperibile in dvd (con due scene inedite del Salò: un ballo e alcune sequenze non montate del reclutamento dei ragazzi).
Partiamo dal titolo: da cosa nasce?
Pasolini, all’inizio dell’intervista con Bachmann, cita una sorta di bibliografia del film che sta girando: Nietzsche, Baudelaire, Klossowski. Proprio a quest’ultimo si deve il “Sade mon prochain”, dove “prochain” va inteso nel duplice significato di vicino e futuro. Come le parole di Pasolini, che hanno trent’anni ma ci aiutano a rileggere il nostro presente.
Colpisce la sua polemica contro i giovani in una società come la nostra, che ha fatto della gioventù una religione.
Pasolini si pone in un posizione socratica di contraddizione e spesso le sue parole sono paradossali rispetto alle attese dell’interlocutore. In quel momento, a metà degli anni ’70, percepiva un’omologazione nascente e sentiva di non poter più parlare al popolo come aveva fatto nei primi film, da Accattone e Mamma Roma fino a Uccellacci. In seguito prova a spostarsi indietro nel tempo, con la Trilogia della Vita. Rispetto a quella, Salò o le 120 giornate di Sodoma è in sostanza un’abiura.
Pensa, come molti, che Pasolini fosse un profeta?
Non credo, anche se ha lasciato grida d’allarme che nessuno ha raccolto e che neppure ora, dopo cinque anni di governo del centrodestra, vengono ascoltate. Purtroppo bisogna dire che il modello della televisione commerciale ha omologato tutta la società. Per me Pasolini non era né filosofo né un politico né un antropologo. I suoi sono sempre discorsi di una poetica: cercava il bello, non il vero, anche se poi incontrava il vero. E questo anche nei saggi e negli articoli, come in “Scritti corsari” e “Lettere luterane”: non dimenticava mai di essere un poeta.
Ricorda quando vide “Salò” per la prima volta?
Tre giorni dopo la morte di Pier Paolo, in quel novembre del ’75, in una proiezione che il produttore aveva organizzato per Bernardo. Ricordo che uscimmo quasi in trance. È un film unico, ma ripensando al cinema di quegli anni devo dire che film così non sono più fattibili né concepibili. Il 1975 è anche l’anno di Novecento e L’albero degli zoccoli.
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