Cosa ci passa per la testa? A questo risponde con Inside Out Pete Docter – già autore di Monsters e Up –, regista dell’ultimo film firmato Disney Pixar. Il nostro cervello è un “quartier generale” – così, anche, viene chiamato nel racconto – qui disegnato come un flipper colorato e floreale, fatto di labirinti e silos di sfere trasparenti, in cui coabitano le emozioni, accomunate dal loro essere espressioni di sentimento proprie di un unico individuo – nella storia Riley, prima bambina gioiosa e poi adolescente in balìa dell’alternarsi degli stati d’animo – eppure ciascuna così differente, in contrasto, non affine alle altre, apparentemente… Gioia, con le sembianze di una Trilly rivisitata, più stilizzata, meno romantica nel personale estetico, essenziale e moderno, è la prima compagna emotiva della piccola protagonista, con lei fin dalla nascita e poi, perennemente, capo fila nel cercare di ristabilire in lei la felicità interiore, che però, come naturale per ciascuno, viene sempre “affiancata” anche dalle emozioni più faticose, aggressive, complesse: Rabbia (un cubotto di moquette rossa), Paura, nei panni di uno smilzo lilla, Disgusto, una donnina cubica, verde fosforescente, e Tristezza, celeste e con grandi occhiali rotondi, convivono e si interscambiano nello spazio cerebrale di Riley, come accade in quello di ogni essere umano.
Inside Out, come da tradizione Disney, sembra un film per bambini eppure si rivolge, forse ancor di più, agli adulti, perché, al di là delle luminose cromie di personaggi e layout, del dinamismo diffuso – tratti riconosciuti e apprezzati dal pubblico più piccolo – questa storia parla, apertamente, di concetti come i ricordi base – che “se tocchi non tornano più come erano” -, le isole della personalità, la memoria a lungo termine e la discarica dei ricordi – in cui “se cadi sei dimenticato” – concetti e metafore complessi, simbolici, che superano ampiamente la capacità di comprensione – per anagrafe, per esperienza, per conoscenza – di quello che può, invece, colpire un bambino, come succede con “Immagilandia” e il suo castello dei lustrini volanti o nel bosco di patatine, anch’essi metafore, anch’essi simboli, non meno importanti, ma di lettura visiva e emotiva più immediatamente leggibile dal pubblico dei bambini.
Scontato celebrare il talento visivo dell’opera disneyana, qui non particolarmente ricercato, forse perché complessa è già la narrazione, quindi le linee grafiche scelte sembra abbiano un tratto meno raffinato, ma comunque di grande maestria, e in ogni caso sempre molto sottile anche concettualmente: in alcuni passaggi in cui si fa necessario un cambio di registro, Pete Docter opta anche per un cambio della tecnica animata, fa convivere 3D, “forma” principale del film, con inserti in 2D, dichiarati dai personaggi stessi: “siamo a due dimensioni”, a voler marcare la difficoltà, il non essere nella miglior forma emotiva possibile.
Come tradizione vuole e come il pubblico si aspetta, il nuovo film Disney Pixar viene preceduto dalla proiezione di un nuovo cortometraggio: Lava s’intitola la storia-cantata da Huku – interpretato da Giovanni Caccamo – e Lele, Malika Ayane, due vulcani che trascorrono le proprie esistenze nell’attesa di incontrare l’anima che li possa completare, perché “la cosa che io sogno di più è che accanto a me ci sia sempre tu”, come a due voci si dichiarano l’un altra.
Giovanni, pensare di essere un vulcano – attivo eppure immobile, antico geologicamente eppure sempre vivo – non sembra unacosa semplice. Come ha studiato il personaggio per dargli la passione ‘umana’ che trasmette?
“Ho cercato di trovare delle caratteristiche che accomunassero me e il vulcano: lui ha la lava dentro, una sorta di cuore, assimilabile alla passione umana, che esplode, come esplode l’amore per un essere umano, nell’attesa di incontrare la compagnia dell’anima; l’attesa, il saper aspettare, è stata l’emozione che mi ha più toccato, perché oggi sembra difficile da concepire nella nostra quotidianità, l’attendere e il lottare per la realizzazione di qualcosa: siamo molto, purtroppo, abituati al tutto e subito”.
Ha dovuto anche essere complice, pur mantenendo la sua personalità, di un secondo personaggio – l’altro vulcano, la femmina Lele – e di un’altra voce, quella di Malika: come avete costruito questa convergenza di fantasia e di suoni?
“La guida originale, della voce, che ci è arrivata all’inizio del progetto è stata fondamentale, ci ha aiutati molto a capire come interpretare il pezzo. La difficoltà, o forse il trucco, è stato ‘spegnere se stessi’ per mettersi al servizio di qualcosa che prescinde dall’essere un singolo artista, quindi non eravamo Malika e Giovanni ma Lele e Huku. Con Malika, nel viaggio in treno Milano-Roma, con gli auricolari alle orecchie, abbiamo studiato la parte: una volta in sala di doppiaggio ci hanno condotti due eccellenti doppiatori d’esperienza che, con molta pazienza, hanno cercato di portarci al risultato finale. Il corto dura circa 5 minuti, la più parte interpretata da me, cosa che ha comportato circa 8 ore di lavoro, anche se già al secondo giorno devo ammettere di essermi sentito in sintonia con la situazione. Per me era la prima esperienza”.
Le immagini come hanno influenzato l’aspetto canoro? C’è stato qualcosa, di tecnico/artistico, che ha ‘provato per la prima volta’ nel dar voce a un personaggio di fantasia, nel cantare un testo che – essendo lei cantautore – non ha composto personalmente?
“L’approccio è stato quello che cerco di avere quando scrivo per qualcun altro e cerco di creare un’empatia con un mondo e una personalità che non sono le mie; il cinema ha poi, necessariamente, avuto una ricaduta sul canto, anche perché una delle cose più complesse è stata far corrispondere il labiale in sincrono; le immagini sono molto suggestive in ogni fase, dalla gioia alla tristezza, così disegni e colori sono stati, per me, capaci di trasmettere le differenti sfumature, lo stesso sono stato stimolato a cercare di fare con la voce, per cercare di passare le emozioni visive anche nel suono”.
Quando si è ascoltato per la prima volta come Huku, quali sono state le sue sensazioni?
“Mi sono riconosciuto e, per quanto potesse sembrare quasi maniacale il curare ogni dettaglio vocale e sonoro, all’ascolto finale ho preso coscienza di quanto fosse stato necessario per rendere realistico il personaggio, per essere efficace, credibile. La cosa di cui ti rendi conto alla fine è come ogni sfumatura del tuo timbro e della tua voce influisca sul racconto: questo, anche da spettatore, mi ha fatto prendere maggior conoscenza di quale sia il lavoro che comporta anche una singola sillaba.
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