Un album musicale, una performance artistica, un libro e ora un documentario. Parola ai giovani, presentato come proiezione speciale alle Giornate degli Autori, è l’ultimo capitolo di un progetto pluriennale e multidisciplinare in cui Giovanni Caccamo è andato attivamente alla ricerca delle idee e, soprattutto, delle parole di cambiamento della sua generazione.
La domanda “Cosa cambieresti della società in cui vivi e in che modo?” è rimbalzata per mesi, raggiungendo 900 ragazzi, tra i quali sono stati scelti 15 rappresentanti. Un viaggio lunghissimo partito dalle parole di Andrea Camilleri e che lungo il percorso ha coinvolto anche numerose personalità dell’arte e dello sport, tutte convogliate all’interno di questo documentario diretto da Angelo Bozzolini. Gli attori Salvatore Esposito e Filippo Scotti, la pallavolista Paola Egonu e il musicista Riccardo Zanotti sono alcuni dei campioni generazionali scelti per veicolare i messaggi di cambiamento di questo film.
Giovanni Caccamo, Parola ai giovani è la fine di un progetto o l’inizio di qualcosa?
Parola ai giovani in qualche modo è un giardino in cui abbiamo seminato tante speranze, tanti scampoli di futuro e quindi adesso in qualche modo ne godiamo dei frutti. Sicuramente è un punto di arrivo perché è il risultato di anni di lavoro e anche di un investimento di energia importante non solo da parte mia, ma da parte delle tante anime che hanno fatto parte di questo coro. Sicuramente, come ogni opera, viene lasciata a disposizione di chi se ne vuole nutrire. L’auspicio è che questo libro, Il Manifesto del cambiamento, questo progetto, il disco, il film possano continuare a fornire supporto emotivo a quante più persone possibile. Soprattutto in un momento come questo in cui i giovani affrontano un momento complesso.
Tra tutti i personaggi famosi e meno famosi, ce ne è uno che appare molto centrale: il giovane migrante Remon. Perché hai scelto proprio lui e la sua parola “accoglienza”?
Il documentario nasce con l’intento di utilizzare più medium per il racconto del progetto. Incontrando tanti ragazzi, con tante storie diverse tra loro per la creazione del libro, sentivo anche il dovere di utilizzare il mezzo visivo, perché il documentario potrebbe diventare il primo approccio a questo progetto, quello più immediato. Farlo con una serie di volti che sono molto riconosciuti dai giovani, i campioni in qualche modo, e farlo anche attraverso i campioni apparentemente invisibili con storie straordinarie. Remon ha aperto il suo cuore e raccontato la sua esperienza di ricerca di libertà e di serenità. In questo momento, è importante percepire la fatica che può nascondersi per la ricerca di sé e per la costruzione di ciò che sei e di ciò che vuoi divenire, non solo geograficamente. Queste storie tragiche e disarmanti di migranti che partono alla ricerca di futuro è un po’ la metafora del viaggio della vita, che ognuno deve compiere dentro se stesso per capire “io chi sono?”. La parola accoglienza è una parola meravigliosa perché presuppone che si attivino tanti sensi, in particolare l’ascolto, non solo l’ascolto degli altri, ma un ascolto interiore: percepire di essere vivo e di essere parte di un coro, di un’armonia più grande. E quindi imparare a riconoscere e accogliere le proprie emozioni: la rabbia, la malinconia, la tristezza, la sconfitta, la gioia, la felicità. Penso sia una parola importante, cardine.
Nel documentario parlano molti giovani, ma anche molte persone più o meno mature. Tutto parte dalla voce di un uomo molto anziano, Camilleri. Quanto è importante il dialogo tra le generazioni per raggiungere il cambiamento?
È un rapporto cardine del progetto. Per edificare il nuovo umanesimo che evocava Camilleri i giovani devono relazionarsi con i maestri. Per questo abbiamo deciso di mischiare dodici dei testi raccolti ad altrettanti maestri d’arte contemporanea come Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino, Cattelan e altri. Che hanno utilizzato questi testi come ispirazione per realizzare delle opere d’arte. Da qui nasce l’esigenza di creare un ponte generazionale tra la generazione dei saggi e la nostra, che è un po’ quello che si faceva fino a non molto tempo fa tra i nonni e nipoti. La saggezza di chi ormai si trova a un’età più matura diventa quasi salvifica per chi invece sta costruendo il proprio futuro.
Quando si parla dei giovani c’è sempre un certo scetticismo. Come se il digitale ci stesse solo togliendo qualcosa, invece di arricchirci. Cosa hai imparato del rapporto tra analogico e digitale alla fine di questo progetto?
È importante l’equilibrio tra queste due componenti. Come l’invenzione dell’automobile, invenzione straordinaria che ha portato molto benessere, ma allo stesso tempo quando fin da subito sono iniziate a morire le prime persone in incidenti stradali si è capito che bisognava in qualche modo una regolamentazione. Noi siamo in questa trasmissione. Non ci sono delle regole, in un mondo nuovo che sicuramente ha dei vantaggi, ma che ha anche degli evidenti pericoli. I giovani sentono il bisogno di sentire un dialogo analogico, mantenere parallelamente questi due binari: digitale e analogico. Essendo noi parte di un ecosistema biologico è fondamentale che il digitale non sostituisca del tutto la nostra natura analogica, quella lentezza che appartiene all’essere umano, che gli permette di entrare in relazione con le proprie emozioni e con quelle degli altri. Questo equilibrio va trovato.
Perché hai scelto “gratitudine” come tua parola del cambiamento?
Penso che sia fondamentale per qualsiasi forma di cambiamento, nel senso che oggi siamo quotidiamanete cullati da una serie di doni che riceviamo che però non riconosciamo come tale. Non c’è un’abitudine alla gratitudine. Siamo più concentrati su quello che non abbiamo, siamo bravi a lamentarci ma poco bravi a dire grazie. La cosa fondamentale di questo progetto è individuare non solo cosa cambieresti della società, ma anche in che modo. Trovare una soluzione tangibile.
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