Al cinema gli affidano, finora, ruoli complessi, tenebrosi, tormentati. E’ stato il figlio eroinomane di Alessandro Gassman in Razzabastarda, adesso è sugli schermi come “bad guy” di Il capitale umano di Paolo Virzì. Quello che sorride poco, ma non dice mai una cosa banale. “Faccio l’attore per essere altro da me e abbattere un timore che ho di natura: espormi”, ci racconta il torinese Giovanni Anzaldo, 26 anni e quasi 300 avventure su palcoscenico, tra spettacoli e repliche, sulle spalle.
La sua passione per la recitazione nasce dal teatro?
Tutto proviene da lì. Il superamento della timidezza, l’adrenalina che ti spinge ad andare in scena il giorno dopo. A nove anni ho interpretato a scuola Il Piccolo Principe e scoperto che recitare mi autorizzava a non essere me stesso. A 17 anni presso un corso serale di teatro ho conosciuto un bravo attore dello Stabile di Torino, Sax Nicosia, e sono entrato in quella scuola. Poi, dopo un’esperienza piccola in Distretto di Polizia, vengo a sapere che Alessandro Gassman cerca attori diplomati per lo spettacolo Roman e il suo cucciolo. Per me il grande Vittorio era un mito, non vedevo l’ora di fare un provino con Alessandro dopo averlo visto a teatro in Parola ai giurati.
Gassman è stato il suo mentore, in un certo senso.
Quando esci da una scuola sei sempre in cerca di maestri, figure che mancano alla nostra generazione. Alessandro invece mi ha accompagnato per tre anni, abbiamo fatto insieme più di 250 repliche. Mi ha insegnato che in questo mestiere si può unire il rigore al divertimento, che il teatro è un gioco con delle regole. Se continuo a provarci è perché vorrei farlo sempre così.
Quali difficoltà incontra un attore emergente?
A parte il pressappochismo, ti scontri con il pregiudizio della bellezza. Dimenticano che la bellezza del neorealismo era quella delle persone per strada. Difficile trovare chi investa su attori sconosciuti anche se di talento, non a caso il mercato è atrofizzato: o fai il commedione con personaggi noti o niente, Razzabastarda ebbe un sacco di problemi perché in bianco e nero e interpretato da teatranti poco noti al grande pubblico.
Al cinema gli attori affermati sotto i 30 si contano in una mano: problemi di ricambio generazionale?
Certo, non c’è perché manca la voglia di rischiare. Piuttosto prendono un volto che già frutta migliaia di euro e lo ringiovaniscono, o magari uno che gli somigli.
Lei a chi vorrebbe somigliare?
A tutti quelli che lavorano. Mi piacciono Riondino, Germano, Rossi Stuart, Favino, Gassman, ma su tutti Tahar Rahim.
Un ricordo del lavoro con Virzì?
Sono andato al provino pieno di piercing e mi ha tenuto tre ore e mezza. E’ stato il provino più bello della mia vita, un microfilm: mi suona ancora nelle orecchie il suo “Ci garba tanto questo Anzaldo”. Un’esperienza indimenticabile.
Da chi sogna di essere diretto?
Daniele Luchetti, perché dirige gli attori come pochi, Matteo Garrone per la ricerca di verità, Marco Bellocchio perché non mi ha preso per Bella addormentata. E Marco Ponti e Francesco Amato, perché sono torinesi e bravi.
Fa cinema, televisione, teatro. E per di più scrive.
Se come attore ho un tremendo imbarazzo, nello scrivere sono me stesso e do libero sfogo alla mia fantasia. In televisione sarò accanto a Lando Buzzanca ne Il restauratore 2, mentre a teatro interpreterò a maggio un testo kafkiano. Nel mezzo, ho scritto una sceneggiatura per una web series. Ecco la vera rivoluzione: la possibilità immensa del web, dove chiunque può fare cinema con pochi euro.
Il web è la soluzione a un cinema in crisi, soprattutto di idee?
Zavattini diceva che il cinema italiano non andrà mai in crisi perché pesca dalla vita reale. È il cinema che amo io, la soluzione sarebbe tornare non tanto al neorealismo, quanto a raccontare il mondo dell’italiano che anche quando sta zitto ha mille storie da raccontare. Lo capisci appena incontri una persona, che tipo di risorsa inesauribile sia. Se non si ragiona in base al marketing, se non si pensa a fare “americanate italiane”, il nostro cinema può tornare a funzionare.
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