Un anno fa ha pubblicato il suo secondo romanzo, L’accarezzatrice. Da allora non fa che partecipare, sensibilizzare, muoversi per rovesciare il tabù dell’assistenza sessuale per disabili in Italia, convinta che “la disabilità anzi tutto non sia un’anomalia, ma solo una sfumatura”. Stiamo parlando di Giorgia Wurth, attrice e autrice del libro, incontrata pochi giorni fa a Cortinametraggio. Convinta come pochi che il nostro cinema dovrebbe dare più spazio a storie e sguardi femminili.
I ruoli femminili proposti dal nostro cinema le sembrano standardizzati?
Alle donne è sempre richiesto di essere belle e giovani, senza questo cliché non arrivano ad avere ruoli a tutto tondo. Nei film vediamo ragazze massimo trentenni in coppia con cinquantenni… Certo, inizia ad aprirsi qualche squarcio per raccontare il femminile in un altro modo, ma si punta sempre sulle stesse attrici e sull’appiattimento di categoria giovane bonazza/moglie frustrata. Non c’è paragone rispetto ai ruoli maschili.
Come mai, secondo lei?
Forse si pensa che le attrici non attraggano da un punto di vista di marketing come i colleghi, convinzione smentita dai recenti flop di film con grandi nomi maschili nel cast. Non è solo un problema che riguarda le attrici: registe e sceneggiatrici non se la passano meglio.
Ha diretto e prodotto un corto che di fatto è il booktrailer del suo libro: le è venuta voglia di firmare un lungometraggio?
No, devo fare un sacco di gavetta prima, mi piacerebbe sperimentare altri corti. Di sicuro ho scoperto che è liberatorio per un’attrice dirigere gli attori: puoi finalmente concentrarti su altro, nessuno ti guarda mentre lavori, né giudica se sei struccata, con la tuta. Un mestiere più responsabilizzante, ma anche, ribadisco, liberatorio. Detto questo, vorrei portare al cinema L’accarezzatrice, ma non è facile.
Per le tematiche che affronta?
Certo: la disabilità al cinema è sempre un grande tabù, si pensa che non interessi, non porti gente in sala. Eppure casi come Quasi amici e La teoria del tutto dimostrano il contrario. L’accarezzatrice aggiunge un altro tabù: quello della sessualità.
E il caso specifico della figura dell’assistente sessuale diventa una questione politica…
Esatto. In Senato quasi un anno fa è stata presentata da più parti politiche una proposta di legge per regolamentare l’assistenza sessuale anche in Italia. Ma non ci sono sviluppi, la proposta é ferma, non è una priorità. Siamo un paese di barriere non solo architettoniche, che già sono vergognose, ma psicologiche, sociali, e vanno abbattute.
Ha trovato produttori interessati a finanziare il film?
In Italia non si trova nessuno che voglia davvero investire su temi del genere, però ho riscontrato interesse da produzioni estere: il libro è ambientato in Lombardia e Ticino, un confine che fa la differenza, perché di qua non è consentita l’assistenza sessuale, di là sì.
Si era fatto inizialmente il nome di Roberta Torre per il film: cerca uno sguardo femminile?
Più che al genere guardo alla sensibilità: serve una penna, prima che una regista, in grado di raccontare una storia corale di corpi rotti. Non è facile. Come non sarà facile per me interpretare Gioia, la protagonista: un’infermiera che perde il suo lavoro e, spinta dalla necessità di trovarne un altro, per equivoco verrà in contatto con una richiesta di assistenza sessuale. Una donna nuova, anticonvenzionale, che perde tutto e proprio in quel momento drammatico trova la forza di mettersi in gioco. Che poi è la stessa forza delle donne che sanno rimettersi in gioco quando la vita le trascina via. É lì che ci rialziamo e impariamo a lottare.
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