Con uno stile naturalistico e in presa diretta, Parigi, tutto in una notte di Catherine Corsini, visto a Cannes 74 e ora in sala con Academy Two dal 10 marzo, ci riporta al novembre del 2018, dentro una giornata di scontri violentissimi tra polizia e “gilet gialli”.
È una ‘frattura’ sociale – come recita anche il bel titolo originale La fracture – e anche fisica. Già perché una delle protagoniste di questo film pienamente corale è Raf (una autoironica Valeria Bruni Tedeschi), illustratrice in crisi matrimoniale con Julie (Marina Foïs), che viene ricoverata in un pronto soccorso con una frattura scomposta al gomito. Viziata, egocentrica, nevrotizzata dalla situazione terminale con l’amata compagna, Raf si trova su una barella fianco a fianco con Yann (Pio Marmaï), un camionista che è stato ferito a una gamba durante la manifestazione beccandosi schegge di granata nelle ossa e che deve risalire al più presto sul suo camion per non perdere il lavoro. L’ospedale è sovraccarico di pazienti in attesa, in più i tagli alla sanità hanno messo in ginocchio la struttura con il personale costretto a turni massacranti, anche sei notti a settimana, in barba a ogni regolamento. In uno scenario drammatico e di guerra, la terza protagonista del film è l’infermiera Kim (Aïssatou Diallo Sagna) che cerca di tenere testa alla situazione nonostante tutto, soccorre come può, anche il malato psichiatrico abbandonato a se stesso nel caos totale.
Il film ha l’ambizione di delineare un ritratto della società francese contemporanea (ma il discorso vale per tutto il mondo occidentale), una società dove le differenze di classe sono acute, più forti che mai, dove la frattura, appunto, tra ricchi e poveri, garantiti e non garantiti, è sempre più lacerante e insanabile. E dove la protesta pacifica è diventata quasi impossibile. Tuttavia, il rapporto che Raf e Yann riescono a instaurare, a partire dall’iniziale diffidenza e aperta ostilità, legata a pregiudizi reciproci e antipatia viscerale, ‘a pelle’, sembra aprire uno spiraglio di umana pietas e dialogo.
“Dopo due lavori ambientati in altre epoche che trattavano di femminismo e incesto – spiega la regista – volevo fare un film che parlasse di questioni di attualità scottanti, di quello che succede nel mondo di oggi, incluse le sue divisioni sociali, ma non ero sicura del modo in cui affrontare queste tematiche. Come potevo rendere drammaturgicamente quello che stava succedendo? Sarei stata in grado di fare un film politico senza usare l’approccio duro dell’attivista? Quale prospettiva dovevo adottare? Come fare le riprese? Durante tutta la produzione di questo film, ho pensato molto all’approccio, farsesco e al tempo stesso profondo, che Nanni Moretti usa per comunicare le sue convinzioni politiche”.
E Catherine Corsini, che ha affidato al personaggio del figlio di Julie, coinvolto nel movimento, il punto di vista dei giovanissimi, prosegue: “A 18 anni ero un’attivista, credevo nella necessità di lottare per cambiare la società, il film mi riguarda ed è a metà fra un documentario e una fiction. Non ho tentato di farci apparire, noi privilegiati, in una luce positiva, volevo portare a galla la nostra cattiva coscienza, le nostre contraddizioni e la nostra pigrizia nei confronti delle manifestazioni di protesta. Non potevo identificarmi con un gilet giallo o con un’infermiera, ma potevo parlare di loro dal luogo in cui avevo ambientato il film. Volevo spingermi oltre la mia zona di comfort e attraverso la coppia di protagoniste, volevo prendere in giro una generazione di persone che un tempo credevano nella rivoluzione ma che ora trovano la nuova rivoluzione un po’ troppo violenta. L’idea – prosegue Corsini – è nata quando sono andata in ospedale per una frattura al braccio, ho visto i gilet gialli in tv e ho capito che era necessario parlare di questo argomento, seppure dal mio punto di vista di persona privilegiata”.
E sulla scelta di Valeria Bruni Tedeschi: “Mi ha interpretato magnificamente – dice la regista – volevo che il personaggio avesse un cambiamento, che interagisse con persone che vengono da contesti sociali e da luoghi completamente diversi. Perché è quello che è successo a me e alla mia compagna Elisabeth quella notte in ospedale, vedevo entrare persone completamente diverse, accomunate solo dal fatto di avere bisogno di un’assistenza sanitaria urgente. Anche durante il Covid c’è stata una situazione terribile, ma nessuno si è fermato”.
Il film, girato con largo uso della camera a mano e con non professionisti nei ruoli dei sanitari, si avvale dell’importante contributo di Aïssatou Diallo Sagna, che di mestiere fa (o faceva) la badante e che si è aggiudicata, a sorpresa, il César come miglior attrice non protagonista. Una scelta, la sua, che accresce il senso di realismo e l’empatia con il pubblico in questa opera che vuole suscitare riflessioni non procrastinabili sul futuro prossimo delle nostre società e che si chiude infatti proprio con lo sguardo interrogativo e desolato della coraggiosa infermiera.
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