Gianni Amelio: la guerra non è un genere

Il regista conversa con lo storico Pietro Cavallo durante un incontro su "Cinema guerra Resistenza" che si è tenuto al Complesso dei Dioscuri al Quirinale


“Il termine ‘cinema di guerra’ non mi piace. La guerra non è un genere, è una tragedia”. Lo dice Gianni Amelio, durante un incontro/conversazione con lo storico Pietro Cavallo su “Cinema guerra Resistenza” che si è tenuto al Complesso dei Dioscuri al Quirinale, nell’ambito della Mostra ‘Millenovecento 43-44 – Il Sud fra guerra e Resistenza’.

“A me piacciono i generi, la commedia, il noir, il thriller – continua il regista – ma la Guerra non lo è. Lo diceva anche Samuel Fuller, che oltre a essere un grande regista ha combattuto durante la Seconda Guerra Mondiale. Tutti i film di guerra, o quasi, sono brutti, fatti male, pieni di retorica, lontani dalla realtà. Fanno evaporare la verità e l’emozione reale di fronte al fenomeno della Guerra. James Bond non vive tragedie, un soldato anonimo sì, al fronte, in trincea, in aereo. I film puntano all’effetto. Ma quelli veramente validi si contano sulla punta delle dita di una mano”. “Lo diceva anche Gariazzo – aggiunge Cavallo – un pittore che fu anche tra i primi critici cinematografici. Nessun film ci può restituire il lezzo dei cadaveri o lo scoppio continuo delle bombe”. Ma quali sono dunque, questi film ‘sulla Guerra’ amati da Amelio? “Non arrivano a cinque – risponde il maestro – sono cattivo e severo: Paisà, Tutti a casa, Le quattro giornate di Napoli e Rosolino Paternò, soldato…”.

Stupisce l’assenza in classifica de La ciociara. “Non mi piace –risponde secco Amelio – è un film scritto male e figlio del divismo. Doveva essere la Magnani a interpretare la madre e Sofia Loren la figlia, poi le cose sono cambiate. Si è abbassata l’età di entrambi i personaggi. Quale ragazzina di dodici anni dopo uno stupro così violento accetterebbe le avances di un camionista e andrebbe a divertirsi in balera? E la mamma non la sorveglia? Tutto questo nel romanzo di Moravia non c’era. Io amo De Sica ma ha fatto cose molto più belle, La Ciociara è sopravvalutato”.
 
Poi continua, raccontando: “Sono nato appena finita la Seconda Guerra Mondiale e cresciuto subito dopo . E sono cresciuto sentendo parlare tanto della guerra. C’era una filastrocca in calabrese che recitava: ‘l’aereo americano getta la bomba e se ne va’. Gli americani erano visti come nemici. Non i liberatori. L’ho capito dopo. Non c’era mica la televisione, giusto due radio in tutto il paese. Non si sapeva quello che succedeva, la scuola non ti diceva nemmeno quello che era successo a Roma all’epoca di Cesare, figuriamoci pochi anni prima. Quindi il fascismo era una realtà accettata, un equilibrio. Gli aerei gettavano volantini di propaganda, in cui spiegavano che l’obiettivo dei bombardamenti non erano i cittadini ma i regime. Solo che tutti erano analfabeti, e non li potevano capire. Mi impressionava l’idea che ci fossero state le leggi razziali. Dicevo: questa cosa rischia di estendersi. Mi faceva paura. Usavamo il termine ‘ebreo’ solo per indicare uno particolarmente spilorcio ma non sapevamo nulla di tutto quello che era successo. Nel mio paese c’erano anche delle persone ebree, due signori si chiamavano Ester, ma per fortuna non avevano subito ripercussioni. Nel bene e nel male, eravamo tagliati fuori, con un punto di vista del tutto diverso dal resto d’Italia”. 

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20 Novembre 2015

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