Gianni Amelio


Facendo uno strappo al cerimoniale, il ministro Rutelli ha voluto vedere il film di Gianni Amelio, in concorso alla Mostra, alle 8,30 del mattino, alla proiezione per la stampa quotidiana. Poi è rimasto a lungo a parlare con il regista in una stanza dell’Hotel Excelsior, facendo anche slittare qualche intervista. “Non dovrei rivelarlo ma lo faccio: Rutelli mi ha detto che è un film stupendo e che è rimasto colpito dalle tante Cine che mostra, angoli che per la retorica occidentale potrebbero non esistere, come quel grattacielo con un ascensore a pagamento che parte solo dal 12° piano e dove in ogni abitazione c’è qualcuno che lavora, che produce qualcosa, vestiti o cibo o giocattoli”.

Come un tempo Antonioni, anche Gianni Amelio è andato a scoprire una Cina sconosciuta e proibita, muovendosi da Shanghai verso i confini dell’impero, attraverso regioni industriali e misere. Al suo viaggio ha dato lo sguardo di Sergio Castellitto e dell’esordiente Tai Ling, di un operaio specializzato cinquantenne e di una studentessa così poco meritevole da essere iscritta alle classi di italiano, lingua “minore”. Il romanzo di Ermanno Rea, “La dismissione”, è dunque appena un “mcguffin” perché il manutentore Vincenzo Buonavolontà parte da dove l’operaio a cui aveva dato voce il libro si fermava, dall’agonia del polo siderurgico, e prosegue un viaggio un po’ donchisciottesco per rimettere al posto giusto un giunto difettoso, ultimo sussulto di fierezza operaia. La stella che non c’è, primo italiano in concorso a Venezia 63, uscirà l’8 settembre in 250 copie, dopo un’anticipo, da domani, nelle città capozona. L’ha prodotto Cattleya con Rai Cinema.

 

Avete avuto problemi di censura?

Non parliamo di censura, per favore, ma di commissioni di controllo, che hanno seguito le varie stesure della sceneggiatura e poi hanno voluto vedere e rivedere il film montato fino ad approvarlo. A quel punto erano soddisfatti e mi hanno addirittura chiesto se volevo girare ancora in Cina.

 

C’è stato qualche intervento delle autorità?

Ci hanno impedito di riprendere le comparse che vanno in bicicletta con la mascherina sulla bocca e una sparuta manifestazione di studenti contro l’inquinamento. Bisogna ricordare che in Occidente le acciaierie vengono dismesse perché devono sorgere fuori dall’abitato, mentre lì non esiste questo tipo di preoccupazione. Infine mi hanno “consigliato” di togliere la battuta dove si parla dell’ascensore a pagamento, ma non l’ho fatto.

 

Com’è stato il rapporto con Sergio Castellitto, un attore-autore, l’alter ego di Marco Bellocchio…

Castellitto, che ha un’esperienza grandissima, capisce che ci dev’essere qualcuno che ha l’ultima parola e così è stato, io cambiavo continuamente i miei piani e lui non faceva una piega. Il nostro è stato un rapporto di simbiosi, gli altri miei personaggi erano uomini malati o malvagi, stavolta invece è quasi un personaggio alla Frank Capra eppure, come dicono sempre a me, “ha un brutto carattere”.

 

Il suo cinema ruota attorno all’identificazione di un ruolo paterno non ovvio ma conquistato attraverso un percorso di maturazione. E’ così anche questa volta?

Direi che la figura di Vincenzo è una figura materna più che paterna. Posso aggiungere che il film è dedicato alla mia nipotina Audina, che ha compiuto 3 anni il 5 agosto e che è stata sul set insieme a me. Quando è partita mi ha detto: “Nonno, fammi crescere subito”.

 

Cosa le ha detto Marco Müller, che è un grande conoscitore della Cina, quando ha visto il film?

Mi ha confessato che prima di vederlo aveva il patema d’animo temendo di trovare qualcosa di inesatto su quel paese che conosce così bene. Subito dopo invece era entusiasta e mi ha detto che sembro cinese!

 

Qual è la stella che non c’è?

Forse l’innocenza, che non è una cosa da bambini ma dovrebbe essere una conquista delle persone adulte, come me che ho 61 anni. E’ un depurare lo sguardo da tutte le cose che la tua esperienza di vita ti ha costretto a diventare.

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05 Settembre 2006

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