E’ situata sugli argini del fiume Stura, a Torino. Un dedalo di legno, lamiere, baracche, ma anche chiese, bar e luoghi d’aggregazione che sorge su una montagna di immondizia, e continuerà a vivere nel film dopo che il percorso di sgombero finanziato da fondi pubblici e gestito da una cordata di realtà territoriali avrà cancellato per sempre l’intero insediamento. Un coro di voci che i due autori hanno cercato di mantenere più spontanee possibile, lavorando sulla fiducia e sulla prospettiva di memoria.
Come avete pensato a questo progetto e perché avete scelto di trattare proprio questo tema?
Il Platz sorge a duecento metri da casa nostra, e avevamo già girato lì alcune scene del nostro film di fiction, Sette opere di misericordia. Abbiamo sentito la necessità di oltrepassare la boscaglia della baraccopoli, e dopo aver conosciuto alcuni abitanti del posto ci siamo resi conto che stava diventando un simbolo di una realtà con grande rilevanza mediatica, politica e anche elettorale. A febbraio 2014 stava per partire il grande progetto di demolizione che avrebbe cancellato la baraccopoli per sempre. Appena ricevuta questa notizia il desiderio di affrontare quella realtà si è fatto urgente.
Con che metodo avete lavorato? Come siete riusciti a mantenere la naturalezza delle reazioni dei vostri interlocutori davanti alla telecamera?
Abbiamo chiaramente lavorato di anticipo, c’è stato un primo approccio molto semplice, se vogliamo. Siamo andati lì di sera, con le telecamere e i microfoni, e una troupe di quattro persone, e abbiamo detto “vediamo cosa succede”. Ci siamo presentati spiegando alla comunità che eravamo lì per fare un film, insomma la sincerità è stata una carta vincente. Hanno capito che non eravamo giornalisti in cerca di scoop, una tv, o chissà cos’altro. E il fatto che ci fossimo introdotti di sera per loro è stato un segno di fiducia, dato che spesso sono evitati, temuti, visti male. E questa fiducia ce l’hanno restituita. Gli abbiamo detto: vogliamo restituire dei frammenti delle vostre vite. Tra poco questo luogo non ci sarà più e vorremmo che fosse ricordato, da voi e da chi vedrà il film. La spontaneità fa parte del nostro metodo, anche nell’autorappresentazione. E’ chiaro che chiunque di fronte a una camera tende ad autorappresentarsi. Noi siamo diventati presto invisibili, senza però l’illusione dell’invisibilità.
Quanto ci è voluto per realizzare il tutto?
Quasi due anni, è stato un processo lungo. Abbiamo dovuto approcciarci a loro che non hanno una grande conoscenza, o comunque ce l’hanno molto mediata, della propaganda elettorale che li riguarda, dell’immagine e delle parole che si applicano a loro all’esterno. Non è solo un campo Rom, il Platz, ma una vera baraccopoli. Ci abitano rumeni, moldavi e anche italiani, tutti molto poveri.
Quanti, in tutto?
C’erano censite milleduecento persone, con tutti i dubbi del caso, tra nascite, morti e partenze. Tra l’altro erano persone che avevamo incontrato più volte nel nostro quartiere, con passeggini o carrette piene di oggetti e vestiti, materassi ed elettrodomestici, camminando lungo lo Stura. Sappiamo che presto diventerà un luogo di fantasmi, quindi abbiamo sentito l’esigenza di valicare il limite e iniziare a comunicarci.
Com’è la situazione, attualmente?
Fino a dieci giorni fa c’erano rimaste una ventina di baracche. C’è stato un incendio che ne ha distrutte alcune. Con una ripresa a volo d’uccello ora vedremmo solo detriti e assi spaccate con qualche nastro arancione. La zona è quasi completamente distrutte. Il problema è che ci sono ancora molte persone che abitavano lì che non sanno cosa fare, perché non sono risultate beneficiarie di una casa.
L’amministrazione ha provato ad affrontare il problema?
Delle famiglie sono state rimpatriate in Romania, e alcune – non tutte – hanno beneficiato di un aiuto economico. Le abbiamo seguite e siamo stati in Romania, per una nostra esigenza di completezza, ma abbiamo deciso di non inserire queste immagini nel film. Ci sono quasi 260 ore di girato complessivo. Potremmo farne un altro film. Altre famiglie sono state messe in casa con un accomodamento sociale e un affitto minimo, che dovrebbe poi man mano andare a scemare man mano che si rendono autonome, ma molte non ce la fanno e il loro destino resta comunque precario, perchP hanno casa ma non lavorano e vivono ancora di elemosina.
Qual è stato il criterio del censimento? Come hanno scelto?
Si è lavorato nell’emergenza, per far colpo sull’opinione pubblica. La convivenza era certamente difficile, il luogo era inquinato con questi continui fuochi notturni e la popolazione del quartiere mal sopportava questo ‘buco nero’ nella città. Inoltre il terreno era in mano a privati. Il tutto è stato giustificato dalle autorità come una necessità di bonifica del terreno. Naturalmente c’è anche una questione politica. L’obiettivo è ‘superare il campo rom’, ma non lo puoi fare in un anno. E’ impossibile in un lasso di tempo così breve risolvere la situazione di millecinquecento persone in stato di totale indigenza. Anche il censimento è stato fatto in due giorni. Molti in quel momento non erano presenti, e sono stati esclusi anche se avevano bambini in età scolastica o persone anziane e malate a carico. Sono rientrati e hanno trovato il caos. In più l’operazione è stata comunicata in maniera estremamente frettolosa e frammentaria.
C’è un che di etno-antropologico nel modo accurato in cui raccogliete le testimonianze, anche dal punto di vista musicale. I canti, le preghiere…
E’ una comunità molto musicale e non solo per la presenza di molti musicisti. Anche di valore, tra l’altro. C’era un anziano che aveva una tessera di riconoscimento come musicista tradizionale, non fosse stato rom magari avrebbe pubblicato dei dischi. E comunque come ha detto lei anche i canti religiosi, la musica diegetica, e poi radio, tv e telefonini. Si esprimono molto con le note. Abbiamo anche partecipato a delle loro feste e ballato con loro.
Cos’altro avete imparato, di loro?
Che in realtà la comunità sono molte comunità. C’è stress nella baraccopoli e situazioni diverse tra loro. Ci sono i più tradizionali e le schegge impazzite, in cerca di fortuna. Chiaramente c’è una lontananza culturale tra la nostra società e la loro, diventano facilmente un capro espiatorio in un contesto fragile come il nostro. Su questo gioca tantissimo una cattiva politica che invece di farsi portatrice di progresso e umanità alimenta questa distanza. Noi cerchiamo di creare un ponte, anche se fragile e sbilenco. Come le assi di legno che separano la città dalla baraccopoli. Il lavoro andrebbe fatto a lungo termine, non parlando alla pancia e nemmeno alla testa delle persone, ma all’anima e al cuore. Invece per ragioni elettorali che vanno come il vento si cavalca la paura. Ci sono anche secoli e secoli di discriminazioni alle spalle e ci vorrebbero altrettanti secoli per poterle sanare. Certo la via che si sta scegliendo non è la migliore. Pensiamo che il nostro mestiere possa essere utile, contribuendo a invertire la rotta.
Su quali punti si potrebbe fare leva?
Guardate il film. Ci sono gesti, discorsi e parole che parlano di argomenti universali: la vita, la morte, l’amore, ma anche cose più terrene come il cibo e il nutrimento. Sono problemi che appartengono a tutti. Lì possiamo trovarci e ritrovarci. Senza la pretesa di un’identificazione narrativa classica. Lo sguardo dei loro bambini è lo stesso dei nostri.
Il documentario ha una durata considerevole. 140 minuti. Puntate alla sala?
Sì, forse dovremo anche asciugarlo. Uscirà il 21 aprile con La Sarraz Pictures. Sicuramente faremo una proiezione a Torino per i protagonisti, alcuni ci chiamano ancora, anche dalla Romania.
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