Gianfranco Pannone: “Siamo tutti sulla bocca del vulcano”

In sala dal 13 novembre con Luce Cinecittà il documentario "filosofico" di Gianfranco Pannone dove aleggia il fantasma dei tanti disastri annunciati


I tanti disastri idrogeologici, più o meno annunciati, della nostra Italia e la sottile vena di malinconia che percorre sotterraneamente lo spirito napoletano, tanto lontano da Gomorra e dal suo vitalismo criminale. Gianfranco Pannone con Sul vulcano ha firmato un film stratificato e difficile da definire, un documentario filosofico, appunto, in cui Giordano Bruno incontra Leopardi. Tre vite più o meno comuni, quelle di Yole, Matteo e Maria, si intrecciano all’ombra del vulcano. Chi vive in questi luoghi, bellissimi eppure desolati, convive quotidianamente con il pericolo del risveglio del mostro che potrebbe eruttare da un momento all’altro come accadde nel 79 d.C. Ma i mali di questi luoghi sono altri, le case abusive ad esempio, costruite sulle strisce laviche in un territorio che ha la più alta densità abitativa d’Europa. Pannone l’ha raccontato con un’interessante commistione di cultura popolare – l’arte dei neomelodici, il culto di San Gennaro che affonda le sue radici in una religiosità dai tratti pagani – e grande letteratura. Chiamando alcuni grandi attori, non solo partenopei, a leggere le tante parole dedicate al vulcano da autori che vanno da Curzio Malaparte a Immanuel Kant, da Fabrizia Ramondino a Matilde Serao. Con presenze anche sorprendenti come quella di Sandor Marai, che abitò tre anni a Napoli e qui scrisse Il sangue di San Gennaro. Applaudito al Festival di Locarno, il film, prodotto da Blue Film con Rai Cinema, sarà distribuito da Istituto Luce Cinecittà dal 13 novembre con un’anteprima a Napoli a cui sono invitati anche il sindaco De Magistris e il governatore della Campania Caldoro. Ma chissà se i politici, che Pannone ha più volte chiamato in causa, risponderanno all’appello.

Pannone, che conoscevamo per Latina, Littoria, qui è alla scoperta della sua napoletanità.
Sono nato a Napoli da una famiglia di origine nolana, anche se sono cresciuto a Latina. Amo la mia terra di origine ma sento anche una certa distanza che ho voluto mettere a fuoco. Ho cercato la corda pazza dei napoletani per fare un discorso più universale, che spero arrivi a tutti. Parlo del fatalismo che è proprio di chi vive sempre in bilico sull’abisso, un fatalismo che può avere esiti criminali, ma che può anche essere positivo. E poi volevo raccontare Napoli senza retorica.

Il fatalismo è anche accettare in qualche modo di vivere in condizioni impossibili, sulla polveriera pronta a esplodere del vulcano o sui rifiuti tossici. Il tornare comunque in questi luoghi dopo ogni distruzione.

Se il Vesuvio dovesse esplodere, cosa che potrebbe accadere tra dieci o cento anni, ma che prima o poi accadrà, come ci spiegano i vulcanologi, esploderebbe di lato, sul versante, provocando un disastro. Allora ti chiedi come mai le persone continuano a vivere in questa terra? Da Ponticelli a Castellammare ci sono 600mila abitanti, c’è la più alta densità in Europa. E anche dopo le eruzioni e le distruzioni, le persone sono sempre tornate. Perché qui c’è un clima e un modello di vita unico al mondo, con l’umorismo e la capacità di assecondare i mali. Il fatalismo ha anche i suoi lati positivi. Sono i politici, però, che non possono permettersi il lusso di essere fatalisti.

Lei ha evitato di fare un film di denuncia e anche di mostrare la Napoli più raccontata dal cinema, quella della camorra.
Il mio è un viaggio in un paradiso perduto, un film più poetico che sociale. Anche se mostro i tantissimi danni fatti dall’uomo, faccio cenno alla disoccupazione e alle discariche. Napoli è la ferita aperta dell’Italia, qui non si mette la polvere sotto i tappeti, come dice Fabrizia Ramondino. Pur apprezzando molto Gomorra o un documentario come Le cose belle di Ferrente e Piperno, volevo raccontare altro. I camorristi vivono a Posillipo non a Scampia. Credo che in Gomorra ci sia un uso improprio di Napoli, quasi involontariamente razzista. Mi piacerebbe adesso fare un film di finzione sulla città in cui racconto una persona normale, che fa una vita normale, ma che deve affermare la sua onestà.

Le musiche di Daniele Sepe sono un punto di forza del film.
Anche in questo ho cercato di far incontrare cultura alta e cultura bassa. Scarlatti e i neomelodici. Sono aspetti che a Napoli sono sempre riusciti a convivere, fin dai tempi dei Borboni.

Come ha scelto i tre protagonisti: una giovane cantante neomelodica devota alla Madonna, una florovivaista e un artista che usa la lava come materiale per le sue creazioni?
Ho fatto molte ricerche sul territorio per scegliere tre persone che non avessero la gigioneria dei napoletani. Iole l’ho incontrata in un bar che parlava di musica; Maria sembrava una pazza invece mi ha colpito per la sua grande cultura, è un po’ una custode del Vesuvio; Matteo ha un legame fortissimo con la sua terra. Tutti hanno quella malinconia che è tipica di una certa napoletanità, alla Eduardo. Volevo tre persone che non recitassero la vita. Tutti e tre hanno una sobrietà inaspettata.

Gli attori a cui sono affidate le parole degli scrittori sul Vesuvio sono quasi tutti grandi interpreti partenopei da Iaia Forte a Toni Servillo, da Roberto De Francesco a Enzo Moscato. Ma ci sono alcune eccezioni. Come li ha scelti e perché?
Sono tutti attori che amo e con cui ho rapporti da tempo. Tra i non napoletani ci sono due etnei, Donatella Finocchiaro e Leo Gullotta, poi c’è Gifuni che è romano. Mentre Moscato è addirittura la voce del Vesuvio, una voce ambigua, dispettosa, femminea.

La presenza di Moscato, tra l’altro, è uno dei numerosi legami con Mario Martone. Proprio Martone aveva portato Toni Servillo a inerpicarsi sulle pendici del vulcano nel suo episodio de I Vesuviani. E ancora Martone ha mostrato il rapporto tra Leopardi e il Vesuvio, culminato nella scrittura de La Ginestra.
Non sembrano convergenze casuali.
Martone è uno dei pochi registi con un livello intellettuale degno della grande tradizione italiana. E Il giovane favoloso, nella parte finale, quella ambientata a Napoli, ha una grande forza che evita però l’enfasi, il luogo comune. Il Vesuvio è simbolo di caducità e Leopardi, proprio a Napoli, si rende conto che l’uomo si illude soltanto di poter governare le cose e la natura.

Ha affidato alle immagini di repertorio, tra cui quelle del Luce, tutto il dramma e la distruzione legata al vulcano. Ci spiega dove ha preso quelle immagini e a quali periodi corrispondono?
La veduta di Napoli con il Vesuvio dei Fratelli Lumière data al 1898, poi ci sono le immagini dell’eruzione del 1906, la più rovinosa del Novecento, girate da un operatore napoletano, quelle del periodo 1929-32, una fase di grande attività del vulcano, furono realizzate dagli straordinari operatori del Luce, infine l’eruzione del ’44 è mostrata negli spezzoni di Combat Film di produzione americana, durante l’occupazione.

Cosa si augura che questo film possa comunicare in un’Italia che vive perennemente sull’orlo del vulcano, anche metaforicamente parlando?
Mi auguro che la gente capisca che i beni comuni sono tali. Che possiamo vivere insieme in una terra migliore, che stiamo dilapidando un intero paese e non accade solo a Napoli. Ma anche che capisca che dal basso può e deve arrivare una spinta alla responsabilità. 

autore
07 Novembre 2014

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