Due film al festival. Un record personale che Giancarlo Giannini minimizza. Alla Berlinale è stato appena due anni fa con Vuoti a perdere – “film sfortunato, però era un altro commissario della mia lunga serie”. È il suo stile, un misto di understatement e simpatica presunzione. Affastella i concetti, porta la conversazione dove vuole lui, ironizza su tutto, compreso se stesso. È appena stato l’antagonista del cannibale Hopkins, ed eccolo protagonista di un delicato “breve incontro” alla David Lean nella notte più breve dell’anno, quella del 21 dicembre. Il regista è Luciano Emmer, festeggiato stasera, San Valentino, con una cena italiana e con la proiezione del suo Una lunga lunga lunga notte d’amore. “Una storia di donne, tra cui Marie Trintignant, che incontro casualmente alla stazione: ci conosciamo, ci innamoriamo, ci lasciamo”.
Si sente portato per le storie d’amore?
Non ho mai fatto altro! Nel mio nuovo film, Ti voglio bene, Eugenio, sono addirittura un down che si innamora di Giuliana De Sio.
Un down? Com’è possibile?
È possibile. Mica solo gli attori americani fanno queste cose…
A proposito di americani: soddisfatto di “Hannibal”?
Anche quella una storia d’amore! Il mio personaggio, il poliziotto, sta con Francesca Neri, e più una donna è bella, più soldi ci vogliono per tenerla. Questo spiega l’ambizione e la lotta di potere tra i due.
Com’è stato l’incontro con Emmer?
È un uomo intelligente, notevole. Già sette, otto anni fa mi parlava di questa storia, poi finalmente ha trovato i soldi per farla. Emmer mi diverte, è un anarchico. Facevamo lunghe passeggiate notturne durante il film, fino alle sei del mattino e non era lui il primo a stancarsi.
Lei si diverte molto nel suo lavoro, sembra di capire?
Io cerco soprattutto questo, divertirmi. Per questo andavo tanto d’accordo con Hopkins: siamo due attori che non amano piangere lacrime vere. Non voglio soffrire, come insegnava Stanislawski, io mi sento semmai brechtiano. Sono e resto attore per caso: amavo l’elettronica, sono finito in accademia per vincere la timidezza, ho collezionato centocinquanta ruoli.
Qui a Berlino ci sono nove film italiani: una rinascita?
Un tentativo. Spero che non siano le rondini che non fanno primavera. Ma vedo registi che hanno voglia di fare cinema con serietà, amore e desiderio. L’Italia si merita un buon cinema futuro. Anche Gladiator l’abbiamo inventato noi. E la farsa, il neorealismo…
Secondo lei che problema abbiamo?
Non di realismo. Il cinema è finzione, altrimenti fai un bel documentario. Persino Rossellini mi diceva: “Ma cosa rompono con gli attori presi dalla strada! Io vado per strada perché non ho una lira”. Quando lessi il copione di Terminator pensai che era una cosa inverosimile, invece Al Pacino mi spiegò che avrebbe avuto un enorme successo. Gli americani hanno capito che col cinema si può fare tutto, che è un gioco.
E non c’è nessun italiano che sta a questo gioco?
Ma sì. Muccino, per esempio. Perché prende questo mestiere senza tante angosce.
Lei lo farebbe, il regista?
Lo farò. Anche per curiosità. Progetto la storia dell’amicizia tra un ras africano e un ragazzino italiano nell’Etiopia della guerra. Comincio a girare a settembre. Se tutto va bene.
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