La nostra intervista inizia con quella che Giancarlo De Cataldo stesso definisce come “una cosa che non si può dire”. Praticamente una confessione: “A me non piace molto il pubblico italiano: è diffidente delle novità, guarda male gli esperimenti, andrebbe rieducato alla visione di un cinema meno prevedibile e scontato. E invece si accontenta della solita minestra riscaldata”. Una minestra, ci racconta, fatta per lo più di commedie – “Perché sulla commedia i produttori vanno sul sicuro” – e di poca lungimiranza. Ecco perché oggi la televisione è il mezzo che osa di più, e con la serialità televisiva di qualità ottiene anche maggiori risultati.
Proseguiamo sulla linea dell’indicibile: cosa non le piace del cinema italiano?
La mancanza di coraggio. La scelta di soluzioni comode. La proliferazione di facili commedie. Però ci sono eccezioni, eccellenze. Penso a Sorrentino, un grande autore, o a Salvatores, un artista spericolato. E ancora, a Cattleya, che ha prodotto Suburra.
A proposito il film l’ha convinta al 100%?
Ma sì, è un bel film, molto diverso dal romanzo, ma del resto un film appartiene al regista, alla sua forza visionaria. E Stefano Sollima è un grande autore, lo conosco dai tempi della Squadra, ha partecipato al progetto Crimini, ha firmato Romanzo Criminale la serie, poi Suburra…. Uno dei rari casi di figlio d’arte che non tradisce le premesse ma le ampia, con un suo stile personalissimo.
Avrebbe cambiato qualcosa nel film?
In fase di scrittura ho messo bocca, a volte ho vinto, a volte ho perso, com’è normale in una dialettica di lavoro. Ma se avessi voluto fare il mio film avrei studiato per fare il regista: quando cedi i diritti e partecipi alla sceneggiatura, accetti i risultati finali. Anche perché se come autore sei scontento hai il potere legale di poter togliere la firma, e io non l’ho fatto.
Intanto lavora alla serie tratta da Suburra per Netflix…
Sì, con Cattleya e Carlo Bonini, come abbiamo annunciato al Noir in Festival di Courmayeur, ci stiamo lavorando, il cantiere si è appena aperto.
La notte di Roma, il nuovo romanzo che avete scritto a quattro mani, rientrerà nella serie?
Potrebbe, sì, come articolazione di Suburra. Sono passati quattro anni da quei fatti, c’è stata l’inchiesta Mafia Capitale. Il Samurai è in prigione per le cose che ha fatto in Suburra (non è morto, come nel film, ndr), quando il Papa proclama il Giubileo ed esplode uno scontro tra poteri.
Da sceneggiatore difende i colleghi? Trova che la sceneggiatura sia un punto forte del nostro cinema?
Indubbiamente. Abbiamo sceneggiatori bravissimi, anche fuori dal settore crime o giudiziario. La prova che qualcosa si stia muovendo è lampante in certe serie tv: Gomorra, Limbo, Lea, 1992 – di cui ho apprezzato anche Tea Falco, che è stata molto criticata, mentre io ho un debole per lei. Tutti prodotti di qualità, ben scritti.
Cosa si potrebbe cambiare per ridare linfa al nostro cinema?
Bisognerebbe uscire dalle secche per cui cui il pop fa schifo a priori e il cinema giudicato troppo di nicchia viene tolto subito dalla sala. Entrambi gli atteggiamenti sono sbagliati. Adesso, ad esempio, mi fa ridere chi se la prende con le 1.500 sale in cui verrà distribuito Checco Zalone. La concezione di cinema come industria è basata sul successo, è la legge dell’incasso, tra l’altro Zalone a me fa morire dalle risate. Il problema non è quello: mi piacerebbe però che ci fossero 15mila sale sempre piene che proiettassero anche altri film. E ancora prima che quei film fossero realizzati con la convinzione che scommettere su altro paga.
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