Sarajevo e il conflitto serbo-bosniaco, dopo No man’s land, tornano di nuovo al cinema. Ma questa volta per mano di un cineasta e una produzione tutta italiana: Gian Vittorio Baldi e la Harold di Torino in collaborazione con Rai Cinemafiction.
Il temporale-Nevrijeme apre seguendo la tradizionale dinamica degli avvenimenti. Tre minuti dove il regista rispetta il percorso cronologico e di causa-effetto, poi in fuori campo lo scoppio di un obice. Da quel momento le azioni si svolgono simultanee. Baldi rompe la verità e la memoria degli avvenimenti ricostruendo sia in senso fisico che cronologico il “temporale”, cioè l’accadimento della guerra, le morti che provoca e la rottura della memoria in coloro che subiscono un evento del genere.
“Uno, due tre: Dio non c’è” si dice ad un certo punto del film. E ancora, una citazione coranica: “quando Dio non c’è gli angeli fanno tre passi”. Si perde volutamente la cronologia per raccontare da tre punti di vista diversi, l’usuraio ortodosso Sveto, un bambino musulmano di nome Suljo e Djula, una giovane zingara, cosa è successo dopo lo scoppio di quella bomba. Soprattutto spiegare le motivazioni della morte di una giovane ragazza, Blanka. Una delle tante uccise durante il conflitto.
Il temporale, girato con un budget di 5 miliardi (2 milioni e mezzo di euro), esce il 17 maggio prossimo in 15 copie. La prima è a Bologna il 14 maggio.
Con Il temporale lei ha costruito un racconto onirico sulla guerra e sulle sue vittime.
Il mio non è un film sulla guerra, ma sulle guerre. Rompo gli argini di causa-effetto, come i conflitti rompono i confini etici. La verità e la menzogna in questo genere di situazioni sono difficilmente distinguibili. Sono due bambini a dare la versione della morte di Blanka. Sluijo e la sua piccola compagna faranno i tre passi compiuti dagli angeli del Corano.
Chi è Blanka?
Un personaggio immaginario con un fondo di verità. Prende spunto da tutte le donne, tante, violentate e strangolate durante la guerra.
Il film è scandito da finestre-foto di una Sarajevo fantastica dove convivono sinagoghe, moschee con i loro minareti, cattedrali cattoliche e chiese ortodosse…
Una topografia fantastica. Sarajevo prima della guerra era l’esempio perfetto di ciò che doveva essere una città europea. In essa convivevano gli ebrei sefarditi, i turcomanni, i serbi ortodossi, gli austroungarici. Oggi il 90% della popolazione è costituita da bosniaci musulmani. Invece miei personaggi, come la città, sono frutto di una contaminazione che avviene anche in termini visivi e linguistici. Sveto, l’usuraio, è ortodosso, la moglie è musulmana, Djula è una zingara di Gorica. Nella versione non doppiata si parlano dialetti diversi: dal siriano al bosniaco al dialetto romagnolo. La Romagna è la terra dove abito.
Il temporale può riflettere anche il conflitto israelo-palestinese?
Certamente. Quello che racconto è che il mondo è uno solo, nonostante le differenze religiose. Sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono. L’ironia è che oggi dove è sepolto Abramo, il padre spirituale delle tre grandi religioni monoteiste – cristiana, musulmana ed ebraica – passano i blindati.
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