Com’era nato il progetto di una storia della Mostra di Venezia che hai pubblicato da Marsilio?
Il progetto nasce da lontano, ci pensavo già nei primi anni ’80, ma ho sempre pensato di coordinare un gruppo di ricercatori e dottorandi a cui affidare ricerche in profondità negli archivi dell’ASAC. Mi è sempre parsa un’impresa molto difficile, una sorta di missione impossibile per un solo ricercatore. Una serie di eventi, convegni, conferenze, incontri mi hanno spinto, dal 2019, a rioccuparmi della Mostra, e da quando ho avuto la percezione che l’isolamento del Covid sarebbe durato a lungo, ho deciso di ottimalizzare la situazione di clausura e di avventurarmi in questa impresa in solitario. Non me ne pento. Un’adrenalina costante mi ha accompagnato per tutti i quindici mesi di stesura del libro unita alla consapevolezza che, con tutti i rischi e le lacune possibili, nessuno aveva finora affrontato un’avventura così panoramica e totalizzante.
Fin da piccolo passavi l’estate nella casa dei tuoi genitori al Lido di Venezia. Quali ricordi hai delle tue prime Mostre?
In realtà sono stato al Lido dal 1945. I primissimi ricordi sono dei primi anni ’50 e del festival del cinema per ragazzi dove devo aver visto Vecchie leggende ceche di Jiří Trnka passando direttamente dalla spiaggia alla sala del Palazzo con altre centinaia di bambini accompagnati dai genitori. Ma il vero battesimo è stato nel 1958 quando sono riuscito ad andare a vedere alcuni film della retrospettiva di Erich von Stroheim. Una vera prima illuminazione. Dal ’60 ho cominciato a frequentare regolarmente le retrospettive e le proiezioni dell’Arena. Una parte della mia biografia materiale e immateriale di storico e critico del cinema e soprattutto di spettatore è stata alimentata dalla storia della Mostra e dei suoi sviluppi. A un certo momento la luce delle sale veneziane mi ha definitivamente indicato la strada da prendere nella vita.
Lewis Jacobs intitolò il suo indimenticabile opus magnum L’avventurosa storia del cinema americano. Quanto di avventuroso c’è stato sia nei 90 anni di vita della Mostra che nelle tue personali ricerche per il volume?
La Mostra deve molto allo spirito d’avventura dei padri fondatori e di molti direttori e presidenti che si sono avvicendati alla sua guida. Nel corso dei suoi novant’anni ha dovuto affrontare difficoltà di ogni tipo, ma oggi sembra dotata di una nuova carica vitale che fa guardare con ottimismo al futuro. Quando ho mosso i primi passi di questo progetto sapevo che avrei dovuto rinunciare a molte ricerche d’archivio, ma grazie alle mia naturale disposizione al bricolage e a una quantità di aiuti indispensabili, da parte della Biennale e di varie cineteche (in primis la Cineteca Lucana che mi ha messo a disposizione l’archivio di Gian Luigi Rondi, e la Cineteca di Bologna), nonché ad una lunga fedeltà alla Mostra, a una serie di studi mirati che ho condotto nel tempo, a partire dagli anni ’70, credo di essere riuscito ad ottimizzare tutti gli elementi e ad ottenere pressoché in ogni capitolo risultati di prima mano e a raggiungere un senso di racconto continuo e articolato su vari piani, in cui si mescolano tutti i livelli, la petite histoire e la cronaca ricostruita con lo spirito dell’annalista, con la storia del cinema, la storia e l’epopea.
Tra i tanti retroscena ignorati che hai riportato a galla, nientemeno che l’esordio di Stanley Kubrick alla Mostra del 1952.
Di questo ritrovamento devo soprattutto a te la felice segnalazione del libro di James Fenwyck su Kubrick. Non trovando nessun elemento che segnalasse la presenza di Kubrick in un primo tempo avevo fatto una rapida ricognizione nell’archivio dell’ASAC senza alcun risultato. Poi però è stata trovata una ricevuta di spedizione del film a New York e a questo punto ho chiesto un aiuto per ricerche più mirate nella corrispondenza di Petrucci e sono saltate fuori le cinque lettere. Un piccolo tesoro che suggerisce l’enorme potenziale dell’archivio.
Altri film o cineasti dimenticati?
La Mostra è stata un luogo di scoperte continue, di apertura a cinematografie sconosciute e un porto franco libero da censure e tabù, così farei un torto a troppi se mi limitassi a indicare qualche nome e titolo: nel corso di novant’anni sono passati sugli schermi del Lido oltre 18.000 film. Si tratta di un giacimento e un luogo di memoria in cui dalle prime edizioni si possono riscoprire titoli tuttora capaci di parlarci non solo nel cinema di finzione e della sua storia, ma anche nel documentario e nel cinema d’animazione.
Affronti nel tuo ‘romanzo’ le altalene personali di molti dei creatori della Mostra, dal potente conte Volpi all’immaginifico cineasta Francesco Pasinetti, allo showman Gillo Pontecorvo.
Di tutti gli ideatori, artefici, Masters & Commanders, ho cercato di fissare, con tratti essenziali qualificanti le caratteristiche individuali. Ne risulta una galleria di condottieri e capitani coraggiosi, di combattenti, esploratori, di grands commis d’état, di direttori pontefici, direttori ombra e di passaggio di diverso peso e caratura, ma a tutti ho cercato di dare quello che mi sembrava giusto spettasse loro. Difficile mantenere la giusta distanza nei confronti di tutti.
Mario Camerini, regista tutt’altro che in riga col regime fascista, ebbe l’onore nel 1932 di essere il primo italiano selezionato per la Mostra col suo capolavoro Gli uomini che mascalzoni, ripresentato alla Mostra in occasione dei festeggiamenti per il 90 anniversario. Una delle tante contraddizioni del cinema del Ventennio?
Il cinema del Ventennio è tutt’altro che allineato col fascismo e la Mostra, soprattutto nelle prime due edizioni, gode di una grande libertà e autonomia nei confronti del regime anche se i suoi organizzatori proclamano la loro fede in ogni occasione. Il film di Camerini è una scelta pressoché obbligata perché il cinema sonoro italiano sta muovendo i suoi primi passi e i film realizzati nel 1932 non raggiungono le due dozzine. Dal 1935 in poi i margini di libertà della Mostra si andranno restringendo, senza eliminare la sua vocazione alla scoperta del nuovo.
Un altro caso assai discusso, quello di Luigi Chiarini, esponente di spicco del cinema fascista, che il governo di centro-sinistra nomina direttore della Mostra nel 1963.
A Chiarini si adattano perfettamente le considerazioni di Agostino Depretis sullo spezzare la propria vita in due: Chiarini è stato un importante intellettuale funzionario del fascismo, ha diretto il Centro Sperimentale di Cinematografia, ma gli ultimi anni di guerra sono per lui un’occasione di riflessione profonda e il fatto di essere stato un fascista di sinistra gli consente in maniera molto naturale di sentire il partito socialista come il più vicino al suo nuovo modo di pensare e vivere nell’ Italia repubblicana e democratica. Chiarini ha riacquistato un ruolo culturale importante nel dopoguerra (a lui va il merito di aver introdotto il cinema all’università), ha avuto un ruolo chiave nella storia della Mostra e mi auguro di essere riuscito a metterlo bene in luce.
Sul caratteriale Chiarini piomba l’ondata della contestazione nel 1968. Quali le conseguenze sulla Mostra?
Se Chiarini, col suo irrigidimento nei giorni della contestazione, è stato di fatto l’unica vera vittima del ’68 veneziano, sulla Mostra dal 1969 e almeno per più di un decennio è come se, a distanza di tre anni, si fosse abbattuta “l’acqua granda” dell’alta marea del 1966, o fosse stata colpita da un evento catastrofico di non inferiore potenza, che ne avrebbe modificato la vita in profondità. Mentre per Cannes la contestazione è un fattore di sviluppo e di apertura verso nuovi orizzonti, su Venezia la combinazione di molti fattori negativi, dalla non approvazione del nuovo statuto, ad un degrado sensibile dell’isola del Lido, dovuto a un venir meno dell’interesse delle istituzioni nei confronti delle sue attività culturali, ha la conseguenza di privare a lungo il festival del suo appeal e del suo primato sul piano internazionale. La riscossa si avrà a partire dal 1979 con la direzione di Carlo Lizzani.
Molti i nostalgici delle straordinarie retrospettive onnicomprensive che la Mostra allestiva ogni anno, per non parlare delle superbe esposizioni di libri e riviste di cinema, dei convegni di studio su temi storici e politici. Ieri era meglio di oggi?
In effetti le retrospettive memorabili degli anni ’60, in particolare quelle curate di Francesco Savio e le esposizioni di libri e pubblicazioni curate da Davide Turconi e Camillo Bassotto, hanno avuto un ruolo fondamentale ed hanno contribuito a definire a lungo alcuni caratteri identitari della Mostra stessa. Oggi, con le trasformazioni in atto, le aperture alla realtà virtuale ad esempio, confermano la vocazione della Mostra a guardare avanti e a rinnovarsi senza rinunciare al suo DNA.
Senza la Mostra credi che il neorealismo postbellico o la nuova ondata nostrana degli anni ’60 avrebbero avuto la stessa eco?
Il neorealismo ottiene una maggiore cassa di risonanza nei festival non italiani, a partire da Cannes, e a Venezia è visto con sospetto sia dalla critica che dal pubblico, mentre la Mostra ha un ruolo decisivo nel porsi come punto di confluenza, di scoperta e di pieno riconoscimento internazionale di tutte le nuove ondate del cinema degli anni ’60. Sulla sua scia nasceranno poi nuovi festival in Italia e all’estero.
Pier Paolo Pasolini fu a tal punto deluso dal mancato Leone d’oro per Il Vangelo secondo Matteo che decise per un po’ di abbandonare il cinema. Non a caso pochi anni dopo fu tra i numerosi contestatori della ‘Mostra di regime’ che invocarono e ottennero l’abolizione dei premi.
In realtà Pasolini nel 1968 vive una sorta di sdoppiamento di personalità, condivide alcune cose dei contestatori, ma vorrebbe che il suo film, Teorema, fosse visto a Venezia. Si tratta di un momento per lui molto critico e pieno di atti contradditori e confusi. L’abolizione dei premi si rivela presto un ulteriore elemento di perdita dell’aura e della leadership di Venezia.
Cinquant’anni fa esatti Pasolini fu anche tra i leader delle epiche Giornate del Cinema Italiano che si svolsero nel centro storico di Venezia nel settembre 1972. Un fenomeno unico di autogestione festivaliera da parte dei cineasti.
A tutti gli effetti le Giornate sono un controfestival a cui aderiscono registi di diverse generazioni da Pasolini ad Antonioni, da Lattuada a Rosi, Bellocchio e Bertolucci, da Maselli a Scola e Comencini e al di là del caso unico in qualche modo lasciano una traccia e diventano un indicatore di direzioni da prendere. I direttori della Mostra che si succederanno dal 1974 terranno conto di alcune modalità organizzative e di apertura al dialogo con il pubblico delle Giornate.
Nel proliferare di festival internazionali maggiori e minori come può la Mostra mantenere il proprio primato?
Tuttora il primato di Cannes non mi sembra essere messo in discussione, ma la Mostra nell’ultimo ventennio ha del tutto riguadagnato il suo ruolo di testa di serie nel ranking dei festival internazionali e il fatto che i produttori americani considerino la partecipazione come un ottimo trampolino di lancio verso gli Oscar ha aiutato non poco a farle riconquistare un ruolo che qualcuno considerava perduto per sempre.
Netflix, HBO, Sky e altre piattaforme stanno trasformando il contesto in cui opera la Mostra?
Bisogna riconoscere che la Mostra di Venezia, rispetto a quella di Cannes è la prima che ha saputo tener conto della nuova situazione e aprirsi alle piattaforme, riconoscendone la qualità dei prodotti e giungendo perfino a premiare qualche opera (vedi Roma di Alfonso Cuarón), senza peraltro rinunciare agli elementi identitari che l’hanno accompagnata dalla sua nascita.
Quale futuro prevedi per la Mostra?
Difficile dopo anni come questi fare qualsiasi previsione sul medio-lungo periodo. La sensazione buona è che in questo periodo e nei prossimi anni la Mostra e la Biennale godano di ottimi comandanti in grado di affrontare coraggiosamente anche eventuali nuove situazioni e nuovi ostacoli imprevisti e imprevedibili.
Resterà per sempre relegata sull’isola del Lido?
Il Lido è stato definito da Tullio Kezich “un’isola ad alto potenziale di utopia”. Da lidense che ne vede e ne ha visto e cercato di raccontare nel corso di molti decenni pregi e difetti, mi auguro che la Mostra continui a restare nello spazio in cui è nata, riuscendo ogni volta a recuperare come per incanto nei suoi dieci giorni di vita il suo senso di sacralità. E di luogo capace di richiamare folle sempre nuove di catecumeni e fedeli e di dar vita a forme di culto che si rinnovano.
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