Ghost in the Shell: reincarnazione e ‘whitewashing’

E’ attesissimo Ghost in the Shell, il film sci-fi di Rupert Sanders con protagonista Scarlett Johansson tratto da un manga culto degli anni '90


Arriva Ghost in the Shell, il film sci-fi di Rupert Sanders con protagonista Scarlett Johansson tratto da un manga (poi diventato anime, e poi serie animata) di Masamune Shirow, culto e rivoluzione degli anni 90 per i temi trattati – in verità elaborazione della mitologia cyberpunk già sviluppatasi nel corso degli anni ’80, con Terminator, Blade Runner e RoboCop come massimi riferimenti – e per la qualità delle animazioni che hanno incantato almeno un paio di generazioni di spettatori. Il Maggiore Mira Killian Kusanagi (Johansson) è un cyborg a capo della sezione di Sicurezza Pubblica numero 9, un’organizzazione antiterrorismo cibernetico gestita dalla Hanka Robotics.

La squadra si ritrova a dover affrontare un nuovo e temibile nemico pronto a tutto pur di sabotare la compagnia. Il film è distribuito in formato 3D e IMAX (nelle sale apposite, chiaramente). La scelta di Johansson come interprete della protagonista non è piaciuta a molti fan dell’opera originale, trattandosi di un caso di ‘whitewashing’, come si dice in gergo, ovvero il cambio radicale di etnia di un personaggio, non caucasica ma asiatica nel fumetto di partenza. In verità, la pellicola trova un modo furbo di giustificare il passaggio, che chiaramente è però dettato da esigenze di marketing e dalla necessità di inserire nel cast una grande star Occidentale per rendere appetibile il kolossal al pubblico statunitense ed europeo. Sam Yoshiba, direttore della divisione commerciale della Kōdansha, azienda che detiene i diritti del manga, ha affermato: “Guardando la sua carriera, ritengo che il casting di Scarlett sia una buona scelta. Ha un’aria cyberpunk. E noi non abbiamo mai pensato che sarebbe stata un’attrice giapponese… questa è un’opportunità per far conoscere al mondo una proprietà giapponese”. 

Il produttore Steven Paul, parlando delle accuse, ha aggiunto poi che l’ambientazione del film è un “mondo internazionale”, aggiungendo che “Ci sono tutti i tipi di persone e nazionalità nel mondo di Ghost in the Shell. Ci sono persone da tutto il mondo. Ci sono giapponesi, cinesi, inglesi e americani”. Anche Mamoru Oshii, regista dell’anime omonimo e del sequel, ha approvato. I diritti del manga sono stati acquistati dalla Dreamworks di Spielberg nel 2008 (poi il film è stato co-prodotto dalla Paramount) e in trattative per il ruolo c’è stata anche Margot Robbie, che ha lasciato poi il progetto per dedicarsi a Suicide Squad.

Il film, più che dalla serie di fumetti, prende spunto da una serie televisiva animata, Stand Alone Complex, uscita in Giappone nel 2004, ispirata all’universo inventato da Shirow ma senza il suo coinvolgimento in qualità di autore. Ai più esperti lasciamo il compito di giudicare la qualità della trasposizione, su cui si avverte comunque una certa influenza del cinema d’azione americano degli ultimi anni e in particolare di quello dedicato ai super-eroi. La  trama è semplice, a essere complessa è la filosofia che sta dietro al tutto e che avrebbe necessitato forse maggior sviluppo. Alcuni passaggi risultano un po’ confusi, come ad esempio le modalità di recupero dei ricordi della protagonista.

Proprio come in Blade Runner, il plot è di matrice noir ma localizzato in un’ambientazione fantascientifico-futuristica dove quasi tutti gli umani sono più o meno tutti cyborg ibridati con strutture sintetiche, in misura diversa a seconda degli innesti cibernetici che hanno inserito sul proprio corpo: possono essere arti meccanici, un fegato ricostruito o occhi speciali per la visione notturna. Mira è il primo caso di mente reale inserita in un corpo totalmente artificiale, ma scoprirà che i piani della coscienza – e dell’individualità – sono molteplici.

C’è il corpo, lo ‘shell’, che può essere modificato, il che implica anche il discorso del cambio di etnia. Un messaggio che sembra volersi dispiegare nche metacinematograficamente. Non conta il colore della pelle o il taglio degli occhi, ma lo ‘spirito’ del personaggio. Poi ci sono i ricordi (che però non qualificano l’individuo, in quanto possono essere artificialmente impiantati) e infine c’è il ‘ghost’, la vera anima, quello che si è e si fa al di là di chi crediamo di essere, come in un moderno concetto di reincarnazione. Il pregio della pellicola è invece quello di essere piuttosto asciutta, di breve durata e facile fruizione, con scene d’azione e scenografie ben costruite e che sostanzialmente si pone come introduzione ideale al complesso e variegato mondo di Ghost in the Shell. Una sorta di ‘Bignami’ che non esaurisce certo l’importanza dell’opera ma ne mette in luce alcuni punti salienti e lascia allo spettatore profano la voglia di approfondire. Se questo era lo scopo, può considerarsi riuscito.

Nel cast, tra gli altri, anche Juliette Binoche.  

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30 Marzo 2017

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