Il Messico è un ventre materno da cui sono venuti al mondo del cinema due artisti che hanno poi conquistato la scena internazionale, e la maternità è davvero il loro anello di congiunzione, infatti – entrambi messicani – Gael García Bernal e Diego Luna si sono frequentati, a loro insaputa dapprima, sin da neonati, perché le loro mamme erano amiche come sorelle.
Così, se un rapporto famigliare, intimo, ne ha battezzato il debutto alla vita, il cinema l’ha curiosamente confermato, infatti il primo comune nido artistico che ha visto spiccare il doppio volo è stato Y tu mamá también (2001) di Alfonso Cuarón, in cui erano rispettivamente Julio Zapata e Tenoch Iturbide, adolescenti, amici, alla scoperta dell’universo del sesso e della complessità delle connessioni umane della vita, film per cui furono quell’anno destinatari del Premio Mastroianni alla Mostra di Venezia, primo di altri riconoscimenti, tra cui – per García Bernal – il Golden Globe (2016) per il ruolo del Maestro Rodrigo De Souza nella serie Mozart in the Jungle.
È lui il protagonista di una masterclass della Festa del Cinema di Roma 2024 e proprio riguardando insieme al pubblico alcune sequenze del primo film riannoda il principio del tutto, materno e cinematografico: “è un’emozione grandissima, è impressionante ascoltare le nostre voci di allora, completamente diverse; empiricamente eravamo più innocenti, nascosti dietro queste voci: volevamo agli altri piacesse quello che facevamo, ma adesso abbiamo ritrovato un’innocenza, siamo più lucidi. Non so esattamente quale sia stata la traettoria che ci ha permesso di essere amici e anche di lavorare insieme, con ottime conseguenze: non ci siamo fermati a chiederci da dove venga tutto questo… la nostra amicizia migliora di giorno in giorno e credo lo dobbiamo al teatro, dove siamo cresciuti con i nostri genitori, esposti a richieste professionali, mistiche, spirituali, perché era un teatro povero e essenziale, e crescere in quell’ambito era bellissimo, lì è nato qualcosa che s’è conservato nel tempo. È una vera eccezione quello che viviamo Diego e io: lui ha una teoria, per cui dobbiamo tutto alle nostre madri, che si volevano molto bene, profondamente, e l’amore tra loro ha unito gli universi, creando un rapporto poliedrico”.
Si sofferma ancora sul film di Cuarón, ricordando che quella sia stata “la nostra prima volta al cinema, ma la prima volta assoluta insieme è stata a teatro, a dieci anni: era una specie di cabaret per bambini, un laboratorio di recitazione, il progetto si chiamava Il ratto delle stelle, ovvero cosa succederebbe se venissero rubati dalle costellazioni i segni zodiacali. Lì abbiamo cominciato a lavorare insieme spontaneamente, poi abbiamo fatto varie telenovelas e varie pièce, fino al film di Alfonso: il cinema ci aveva scoperti; in quel periodo, fare cinema in Messico era un’eccezione, per noi era qualcosa di irraggiungibile, mai… infatti avevo fantasticato su quell’idea, non lo volevo nemmeno, ma quando è entrato nelle nostre vite ho capito che fosse un altro… strumento, a cui non eravamo abituati, e rappresentava un’avventura di scoperta. È stato un momento: eureka!”.
Tanto García Bernal quando Luna, pur nascendo in una terra dalla personalità e dall’essenza specifica, hanno costruito il proprio Io cinematografico sfaccettando il talento, dalla recitazione alla regia alla produzione, sbarcando il lunario internazionale accanto a nomi che hanno amplificato la loro luce: se Cuarón li ha battezzati, per García Bernal sono poi stati Almodóvar, Gondry, Larraín, Iñárritu a confermarne il talento prismatico e la plasticità mimica, una versatilità che ha declinato nei ruoli più disparati; con Luna attore internazionale di titoli pop da Frida a Dirty Dancing 2, da Milk a Rogue One: A Star Wars Story. Ed è tornando a I diari della motocicletta che García Bernal non ha dubbi su quella che sia stata per lui “l’esperienza migliore al cinema. Walter Selles – il regista – mi disse: ‘questa sarà la cosa migliore che ti capiterà nel cinema’; io avevo 24 anni e non ci volevo credere; altre cose belle sono arrivate ma è stata davvero la più bella nel cinema, girata per otto mesi, viaggiando in differenti Stati, sentendo un senso di appartenenza che era un atto di fede fantastico tra le nazionalità, raccontando una persona che ha voluto soffermarsi su qualcosa che l’ha sorpreso: restare sorpresi dalla grandezza della nostra casa, da dove veniamo, è un’ispirazione bellissima. È stato un viaggio nel nome di un gesto generoso: un esercizio antropologico, un’esperienza totalizzante di cinema, sotto la mano di qualcuno di fondamentale come Walter, un mentore. Sono orgoglioso e grato di questa occasione, ho nostalgia di quel momento, un’esperienza sociale perché ancora i cellulari non erano così presenti e performanti, per cui c’era molta possibilità di parlare nei momenti attesa… una magia”.
L’Uno, nessuno e centomila che è Gael García Bernal porta con sé anche l’essere attivista, qualcosa di connesso a senso unico con il cinema. Lui spiega che “venendo da una famiglia di attori non volevo fare l’attore, volevo fare il medico, come Ernesto Guevara era medico… e ricordo quando ero in fila per dare l’esame di ammissione all’Università, diviso tra Filosofia e Medicina, e lì qualcuno mi disse: ‘lascia perdere… Medicina’, e così ho scelto Filosofia. Tutti i film mi hanno dato l’occasione di percorrere le complessità politiche, è stato qualcosa su cui mi sono afferrato, avendo un senso del ‘perché’. Mi sono avvicinato alla recitazione per riuscire a reinterpretare conseguenze politiche, sociali, antropologiche, e I Diari di questo trattava. Non riesco mai a separare l’elemento politico dal film che interpreto, è qualcosa di effervescente, che io lo voglia o no”.
Tra politica e attivismo, ecco il sogno, L’arte del sogno di Gondry, per cui l’attore messicano ricorda che “Michel voleva fare due film, tutta la parte in stop motion, mentre giravamo dal vero: mi ha sorpreso molto la creazione di un universo in cui ogni elemento fosse strumento di racconto con cui giocare. Lui si fidava che noi attori potessimo offrire delle possibilità di inventare, avventurarsi in cose incredibili. Con Charlotte Rampling c’è stato un rapporto ludico, è bello innamorarsi come attore dei tuoi compagni d’avventura: interpretare un’altra realtà è inalienabile in tutti gli esseri umani e il principio di base della fiducia tra attori è l’amore, per cui diversamente – per me – significa perdere la parte mistica del mestiere”.
Dal senso del sogno, al senso pragmatico del cinema, quello della produzione, nel ruolo di produttore, per cui García Bernal spiega che “dapprima con Diego abbiamo organizzato una produzione e poi un festival, Ambulante, che da vent’anni è itinerante per tutto il Messico: siamo molto orgogliosi del progetto, con il desiderio di portare i documentari ovunque, dalle carceri alle palestre, e non per forza solo nelle cineteche. È stato un progetto difficile da copiare in altri Paesi, e da noi è sopravvissuto anche a diversi governi. Per me il documentario è arrivato come una sorpresa, in un periodo in cui i doc erano solo sugli animali e si guardano solo sui canali tv culturali. Era un periodo di scoperte, amavo andare al cinema ma i documentari hanno sempre avuto un’introspezione più evidente, sono capaci di suscitare una certa alchimia da spettatore”.
E, a proposito di ruoli “altri” dalla recitazione, ecco anche il Gael García Bernal regista, come per Chicuarotes (2019), e di questo suo ruolo dietro alla macchina da presa spiega che quando accade “succede una cosa molto bella, mi devo tuffare dentro il film: ti innamori completamente di tutto, in genere è sano, e deve avere una ragion d’essere; devi trovare in te stesso il bisogno di portarlo a termine. Con Chicuarotes la sfida è stata andare controcorrente: la violenza, l’infanzia, erano cose già viste, mentre a me affascinava una ricerca sperimentale sul come nasca la violenza sistemica; l’elemento famigliare permette la salvezza e il riscatto e così volevo immergermi per capire da dove nasca una persona che poi magari commetterà i peggiori crimini; costa vederlo sullo schermo, ma era una sfida, da raccontare come una favola, con un antieroe grottesco con cui empatizzare. La semiotica del cinema implica un altro genere di comprensione, che mi appassiona riuscire a capire: mi sento un neofita sul posizionamento della camera, mi sembra di avere davanti ancora un ampio menu di possibilità da esplorare”.
Da dietro la mpd, ecco il messicano tornare davanti, anzi, salire sul ring, con un personaggio come Cassandro “che ha in sé una complessità enorme: è apertamente omosessuale, in un’epoca in cui i lottatori esotici erano personaggi un po’ marginali, ma lui – come altri – ha cominciato a vincere e il pubblico lo voleva. Non volevamo fare un film sul coming out ma alla fine sì, l’abbiamo fatto, ma su come l’abbia fatto la società, desiderando loro vincessero, appoggiandoli, sostenendoli. Un gioco affascinante, insieme anche alla cultura di frontiera”.
E la lotta libera ritorna con La Máquina (“la macchina”), soprannome di Esteban Osuna (Gael García Bernal), pugile, personaggio della serie con anche Diego Luna e di cui l’attore racconta “un aneddoto di fondazione” sulla nascita del progetto: “Diego e io eravamo molto… ubriachi, alla Berlinale, un po’ frustrati per un film che non era molto piaciuto. Io mi preparavo alla boxe per un film che poi non s’è fatto… Paliamo… parliamo… e da lì sono nati aspetti chiave de La Máquina, come ‘chi’ sarebbe stato ‘chi’ e come il karaoke sarebbe stata la catarsi; è una storia in cui ‘perdere’ voglia dire ‘vincere. E lì tutto è iniziato”.
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