‘Fratelli di culla’. Alessandro Piva e il bisogno di un atto d’amore

Il regista racconta il sentimento di essere bimbi non riconosciuti: “dobbiamo dire grazie ai movimenti femminili e alla lotta per il divorzio prima e per l'aborto dopo, che hanno cambiato completamente il clima socio-culturale”. L’Archivio Luce e il pugliese MAD tra i più preziosi per il doc in Concorso a Bari


BARI – Da Bari all’Europa e ritorno. Fratelli di culla di Alessandro Piva nasce “suggerito” dal brefotrofio della città pugliese, specchio di esperienze e sentimenti moltiplicati a macchia d’olio per il Paese e oggi anche arrivati all’attenzione delle istituzioni europee: il documentario, in Concorso al Bif&st 2025 nella sezione Cinema Italiano, racconta le storie di persone adulte, prima bambini, che solo “da grandi” scoprono di essere stati adottati dopo aver passato l’infanzia in istituti come quello barese. Queste strutture, attive fino agli Anni ’90, hanno accolto neonati abbandonati o sottratti alle famiglie e Piva, incontrato in occasione dell’anteprima, ci racconta come attraverso filmati d’epoca, testimoniante in prima persona, fotografie del passato, ci fosse un universo femminile solidale, riflesso dei cambiamenti sociali connessi alla maternità e all’identità.

Alessandro, quali riferimenti culturali – o magari personali – hanno giocato da sprone per lo sviluppo della storia di Fratelli di culla?

Lo stimolo di partenza è stato fondamentalmente il fatto che io quel posto – il brefotrofio – l’abbia avuto davanti agli occhi per decenni: tutta la mia gioventù ho vissuto a Bari e questo edificio era a 200 metri da casa mia, ce l’avevo di fronte e l’ho visto decadere sempre più, ma era di dimensioni tali, con un parco così imponente, che mi faceva pensare avesse una missione, un suo ruolo nella città. Quando poi, casualmente, molti anni dopo, ho scoperto che online, in Rete, ci sono un sacco di annunci, di appelli – a volte disperati, a volte insistenti – di persone che hanno scoperto, magari solo pochi anni fa, di essere stati ospitati da questo istituto, 40 anni fa o giù di lì, ho detto: ‘…ma che storia! Ma com’è possibile che ci siano delle persone che scoprono di essere stati adottati a 40, 50 anni?’. Sa, tutte le nostre convinzioni, i luoghi comuni, le somiglianze, saltano tutti a quel punto: c’è della gente che scopre questa roba soltanto quando gli viene detto, e certe volte in maniera del tutto casuale, magari perché legge un documento ufficiale, perché muore un genitore e l’altro si fa forza e gli dice come stanno le cose insomma, oppure per malattie. Il motivo fondamentale del mio film, quindi, è questa doppia coincidenza.

Il titolo suggerisce un legame profondo con l’infanzia: cosa le interessa, da autore, di questo tempo della vita?

Una parte importante del mio lavoro è la formazione e credo che il fil rouge del mio lavoro di documentarista sia fondamentalmente quello di raccontare in una sorta di cortocircuito tra l’infanzia e l’anzianità. Mi piace chiedere agli anziani di quando erano piccoli. Non so per quale motivo, ma è la seconda volta che mi capita, e penso a Pasta nera (2011), film con un impianto simile, in cui parliamo di un’epoca molto simile – il secondo dopoguerra italiano – e di questi bambini che invece di essere deportati, negli stessi treni che portavano i soldati al fronte pochi anni prima, hanno goduto di un miracolo organizzativo straordinario, infatti molti bambini del Centro-Sud sono stati accolti dalle famiglie del Nord, in Emilia, in Toscana, nelle Marche. Ecco, vedere queste persone anziane che tornano alla loro giovinezza, con occhi che scintillano quando raccontano, con un’energia che si riaffaccia, è una cosa che mi piace molto, e Fratelli di culla in qualche modo ragiona attorno a un tema molto simile, per cui c’è un trait d’union, anche perché parliamo di storie che hanno pochissima visibilità, anche sui libri di Storia si parla pochissimo di questi fenomeni, che sono però tasselli della nostra Storia recente, che hanno riguardato milioni e milioni di persone, ma nessuno ne sa veramente tanto. Ecco, raccontare attraverso gli occhi degli anziani la loro infanzia è una cosa che mi strugge, mi emoziona, mi appassiona, e credo che anche a loro faccia tornare indietro nel tempo.

Il film parla anzitutto di nascita e ‘la pancia’ di questa madre che è la vita è rappresentata fisicamente da un luogo, il brefotrofio: quanto lo spazio – anche in accordo con l’uso di materiali d’archivio – è un personaggio imprescindibile della storia?

Lo spazio è sicuramente un protagonista del film, un protagonista che noi vediamo poi arrivare nella sua decadenza, nella sua contemporaneità, solo più avanti nel racconto. Quindi, il film parte dal passato e viene reso in qualche modo presente dalle dichiarazioni di prima mano di chi ha vissuto quell’istituto, quella struttura, quell’edificio, quando era in piena efficienza, e poi ad un certo punto giriamo pagina e attraverso le immagini del brefotronchio di oggi  ascoltiamo le testimonianze di chi da quel posto è passato ma non ha memoria diretta, perché era troppo piccolo. Questo, secondo me, è un elemento strutturale del film, che ce lo divide in capitoli e ci consente ogni volta di ripartire.

Il femminile, la maternità, è certamente centrale e sfaccettato: nelle vite degli orfani ci sono state tante e diverse ‘madri’, dalle balie alle suore, dalle lavandaie alle assistenti sociali. Cos’ha compreso lei del concetto di maternità costruendo questo racconto?

La cosa che ho apprezzato molto, e che mi ha fatto anche crescere in qualche modo, è che per un bel numero dei miei testimoni sia ormai acclarato il fatto che abbiano almeno due mamme. Parliamo di due mamme perché è vero che anche le bambinaie per loro siano state figure importanti, ma sono un po’ sparite poi dalle loro vite: chi però ha fatto pace col passato, col vissuto, chi ha avuto questa forza, questo equilibrio, questo essere centrato, racconta di una ‘mamma di pancia’, spesso parlano di ‘mamme di pancia’, e della mamma adottiva, della seconda mamma. Ecco, alcuni invece non hanno saputo gestire questa cosa, che comunque non è facile: è una storia molto complessa, che ti coinvolge molto personalmente, però chi è riuscito ad accettare l’idea di soffiare due candeline ogni anno, su due torte, la torta della nascita reale e la torta dell’ingresso in una nuova famiglia, momento dell’accoglienza da parte di una nuova mamma, ecco, sono persone che hanno qualcosa in più mi viene da dire; certamente nei casi di questi piccoli miracoli si tratta di persone riuscite a trovare un equilibrio e che adesso cercano la loro mamma biologica per dirle ‘grazie’, per sorriderle, per dirle ‘grazie’ anche da parte della mamma adottiva che ha avuto un regalo straordinario. Ecco, ci sono di contro persone che non hanno trovato la mamma adottiva o non hanno fatto pace con il loro vissuto molto complesso, che continuano a fare appelli e soprattutto vorrebbero tanto scoprire, e questo è un tema comune, un traguardo tra tutti i miei intervistati, ovvero sapere se siano nati effettivamente da un atto d’amore. Questo per loro è un vuoto, che li rode un po’ dentro, ma spesso e volentieri scoprono che in effetti essere in vita, essere stati partoriti, sia già stato un atto d’amore, perché all’epoca l’aborto era illegale ma è anche vero che fosse una pratica molto diffusa, quindi se una madre ha partorito un figlio sapendo che l’avrebbe dovuto abbandonare ha avuto comunque un gesto altruistico, di coraggio, anche perché spesso queste madri per i primi mesi sono andate ad allattare i propri figli pur sapendo di non poterli crescere. Da fuori è facile analizzare in un certo modo le cose, però questa è una storia che ci deve far riflettere, far emozionare: questi abbandoni, in questo numero, in queste dimensioni, questo fenomeno insomma è dovuto alla morale comune, alla pubblica opinione dell’epoca che effettivamente, in maniera troppo superficiale, si faceva intollerante rispetto alla maternità fuori dal matrimonio. Ci sono voluti decenni per spazzare via questa cosa e dobbiamo dire grazie ai movimenti femminili e alla lotta per il divorzio prima e per l’aborto dopo, che hanno cambiato completamente il clima socio-culturale.

Fratelli di culla affronta tematiche universali come famiglia, identità e destino: come ha scelto dapprima di approcciare a ciascuno per poi tesserlo insieme agli altri, qual è l’equilibrio o il contrasto che è andato cercando?

Quando si gira un documentario dobbiamo anche affrontare delle pratiche burocratiche, tutte cose assurde che fanno parte di un gioco, che ti portano a dire ‘chi ha scritto questo film, di chi è il soggetto e di chi la sceneggiatura’: in un documentario, almeno per come lo vivo io, si può avere un’idea iniziale, ma poi è l’immersione in questo mondo, in questa realtà, e la piccola caccia al tesoro sta nel trovare testimoni disposti a parlare, e nel cercare archivi, rintracciati a volte in maniera rocambolesca; alcuni dei pezzi migliori di questo materiale di repertorio che abbiamo organizzato e distribuito nel film arrivano casualmente da nomi di pizze mai digitalizzate nelle cineteche. È stato veramente un impegno molto lungo, anche fortunato in certi casi perché ci sono dei gioiellini dentro, cose davvero preziose, in cui anche l’archivio fotografico privato dei nostri intervistati è stato veramente una miniera d’oro. Per la costruzione succede che io il film un po’ ‘lo respiro’, qui viene da dire: ho bisogno di molto tempo per maneggiare un materiale così complesso, ore e ore di interviste, ore di repertorio. Quello che mi piace del lavoro di documentarista è costruire un mondo da raccontare, così da fare un racconto condiviso, da restituire. Questa, secondo me, è la forza di film di questo tipo, che si costruiscono al montaggio.

Per il materiale d’archivio ha attinto anche a quello del Luce.

Sì, nei film precedenti l’Archivio Luce aveva un ruolo da protagonista preponderante, ma anche in questo caso è stato prezioso però, essendo una materia molto specifica come quella dell’adozione, dell’assistenza all’infanzia, abbiamo dovuto guardare a 360° gradi: delle cicche sono arrivate dall’AAMOD, soprattutto per quanto riguarda i movimenti femminili, ovviamente. Altro materiale molto prezioso è arrivato dalla Cineteca di Milano, dove abbiamo pescato anche casualmente dei materiali, però il Luce è stato molto prezioso, soprattutto grazie a Natalie Giacobino, che ci ha scovato una pizza non digitalizzata di Luigi Di Gianni, documentarista e anche è mio insegnante al CSC, che, con una modernità straordinaria, aveva intervistato in prima persona una ragazza madre, ospite di un istituto; queste immagini ricordano assolutamente, con un altro stile beninteso, la forza dei documentari coevi di De Seta. Per il raccordo tra i vari archivi è stato fondamentale il MAD, un archivio pugliese che si è preso l’incarico di portare avanti il testimone degli Home Movies da una parte, e anche di tanti altri archivi; ce n’era bisogno perché qui ci sono tanti materiali che sono sul filo dello smarrimento e Luciano Toriello, il curatore, il direttore di questo archivio, si è preso il compito di radunare un po’ di materiali, permettendomi un raccordo tra tutti gli archivi appunto. È un lavorato prezioso perché, come dice lui, questo in fondo è un Film d’Archivio, perché è tutto sulla memoria, al di là dei repertori, è un film archivistico e sono lieto di averlo potuto fare.

Per Fratelli di culla ha conosciuto tante storie e incontrato tante persone: c’è una frase, un concetto, uno sguardo che in particolare le si è impresso e sintetizza un po’ il film?

Ho due concetti di questo film che mi sono rimasti impressi, tra gli altri. Uno è l’atto d’amore, che tutti i bimbi non riconosciuti cercano, è qualcosa di impressionante: interviste fatte a distanza di settimane, nei luoghi più disparati, tornano tutte sullo stesso tema. ‘Io voglio sapere se sono nata/o da un atto d’amore’. Quest’atto d’amore, il dare alla luce un bimbo, è un tema fondamentale che chi non ha avuto accesso alle origini vuole risolvere. E l’altra frase, molto forte, l’altra battuta che mi è rimasta molto impressa è: ‘sono figlia della vergogna ma non mi vergogno perché ci sono’, che mi emoziona moltissimo perché il dono della vita, la riconoscenza per essere su questo pianeta e godersi le luci e le ombre che ci dà l’esistenza, è una cosa che ci ricorda quanto sia dono prezioso.

Alessandro Piva, infine, ricorda che ci sia “un tema centrale nel discorso del diritto alle origini: non è facile risalire alle informazioni sulle proprie origini, a livello burocratico ci sono molti ostacoli per ottenere informazioni sull’identità e sulle radici di una persona. Una sentenza della Corte Europea ha sanzionato l’Italia per un atteggiamento scorretto nei confronti di quello che è un diritto, e questo gridano a gran voce le associazioni di bimbi non riconosciuti e anche L’Europa”.

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23 Marzo 2025

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