Franco Piavoli: il digitale che arricchisce

Il mondo del documentario è in continua evoluzione, specchio di una realtà che regala spunti di riflessione continui, oltre che margini per analizzare una società sempre più frastornata.


PARIGI – Il tradizionale appuntamento del Cinéma du Réel, arrivato alla 38° edizione e in corso di svolgimento al Centre Pompidou di Parigi, quest’anno dedica una retrospettiva a un maestro italiano del genere: Franco Piavoli.  

Il suo racconto della natura ha avuto nel corso della sua carriera la valenza di un viaggio sensoriale completo, quasi fisico, in grado di prendersi il tempo necessario per raccontare il mondo e la vita, partendo dal suo piccolo paese e dalla campagna circostante. Di Piavoli vengono proposti in questi giorni a Parigi lavori che vanno dagli anni ’50 fino ai più recenti, come Affettuosa presenza (2004), o il cortometraggio realizzato nel 2013 per l’opera collettiva Venice ’70 – Future Reloaded. CinecittàNews ha incontrato a Parigi il regista lombardo, classe 1933.  

Siamo al Cinéma du Réel, al Centre Pompidou, una cornice prestigiosa. Che sensazione le ha dato questo omaggio?  

Un’emozione grande. Qui c’è un’atmosfera particolare, specie per me che faccio dei film in cui è proprio l’atmosfera ad essere protagonista; non solo l’immagine, ma anche il suono, gli odori, tutta la presenza sensibile dell’ambiente in cui si muovono i miei personaggi. Cerco di calarli in un’atmosfera che possa identificarli e raccontarli al meglio.  

Una retrospettiva è un’occasione, se non di rivedere, almeno di rievocare i film di tanti anni di carriera. Le fa piacere?  

Qui li presento solo, visto che li conosco a memoria, ma naturalmente mi si ravviva il ricordo, una cosa che mi fa piacere. Rivivendoli poi in serie, uno di seguito all’altro, ricostruisco il percorso della mia vita, dal momento in cui ho trovato questo modo per esprimere me stesso e la vita degli altri. Sto avendo qui a Parigi molte occasioni straordinarie per dialogare col pubblico; mi avvicinano, dopo aver visto il film, con le loro osservazioni. È fondamentale, perché serve a correggere la rotta, visto che parecchi errori li ho commessi, devo ammetterlo. Ma il dialogo con pubblico aiuta a superarli, mi incoraggia e mi regala conforto nel proseguire in questa strada.  

Se lo ricorda il momento in cui ha deciso che era questo il modo con cui voleva esprimersi?  

Ho cominciato con la fotografia, affascinato dalla possibilità di riprodurre la realtà che vedevo; poi anche con il disegno, con cui mi dilettavo fin da quando avevo vent’anni. Mi affascinava l’idea non solo di riprodurre, ma di interpretare la realtà, anche solo attraverso un taglio di luce, un’inquadratura. Quando ho cominciato a prendere in mano la macchina da presa, ho potuto restituire anche la dimensione del movimento. Poi con l’arrivo del cinema sonoro ero ancora più felice, perché potevo dilettarmi con la terza dimensione, quella del suono. Non potendo, però, rendere gli odori o il tatto, ho cercato di esprimere anche queste dimensioni con particolari tagli dell’inquadratura o interventi sonori. Ho cercato di risvegliare tutti i sensi con i quali percepiamo il mondo.  

Cosa pensa del cinema contemporaneo, dell’utilizzo ormai quasi esclusivo del digitale?  

Amo ancora seguirlo e il digitale è un arricchimento ulteriore. Attenzione, però, perché la questione cruciale è sempre come si usano gli strumenti. Se viene usato solo per catturare con una golosità eccessiva tutto quello che ci circonda, con una rapidità estrema e solo con un selfie o per mostrare che eri in quel posto, e non per ricostruirlo e restituire l’anima di quello che hai visto, allora tutto questo porta danno. Il cinema contemporaneo tavolta si avventura in una corsa veloce per conquistare tutto, in una direzione sola. Non voglio escludere che il cinema di grande azione sia importante, ma non può essere il solo e unico. Anch’io giro in digitale, ma cerco di tenere a lungo ferma l’immagine, per farla parlare e non solo per generare un’ansia di inseguimento, di catturazione.  

Qui si parla di cinema del reale, ultimamente lo si fa molto anche in Italia …

Per fortuna c’è un certo recupero, ma qui da anni hanno portato avanti questa linea, promuovendo questi film. Ora anche in Italia e nel resto del mondo si sta di nuovo prestando attenzione a questo modo di fare cinema. La cosa non può che farci molto piacere.  

Cosa pensa dei nuovi autori italiani di questo genere, come Rosi, che ha appena vinto la Berlinale?  

È un bell’esempio di un cinema che usa la macchina da presa tenendola lungamente ferma, lasciando parlare i personaggi. Per fortuna ci sono altri autori, anche da noi, oltre a Rosi: Pietro Marcello, Frammartino, Mario Brenta, che riscoprono l’importanza del cinema del reale.  

Dopo molti anni di carriera, cosa vuole ancora raccontare, quale emozione?  

Adesso ho una certa età. Per fortuna si sono alleggeriti i mezzi, non devo più portare il peso della macchina da 35 mm, ma ci sono queste macchina digitali leggerissime, che sono le benvenute, e costano poco. Intendo continuare ancora in questa direzione, esplorare nuovi angoli nascosti della vita, non solo di quella di campagna, ma anche di quella di città. Il tutto per cercare di riproporla e analizzarla insieme agli spettatori.   

Parlando di giovani, vede in loro la stessa curiosità che lei ha sempre dimostrato?  

Sì, pur essendo talvolta deviati dall’idea di un cinema di velocità, frenetico, visto che sentono il bisogno istintivo di prendersi una pausa, che abbiamo tutti, che condividiamo anche con gli animali. Quando viene a galla mi fa molto piacere, quando oltre al dovuto spazio per il cinema drammatico, o la commedia, si trova un posticino per il reale; visto che ora con pochissimi mezzi si possono fare delle esplorazioni straordinari della vita in cui siamo immersi, continuando il dialogo fra chi fa e chi deve fare.

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24 Marzo 2016

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