Di Alpe Adria Cinema, Franco Giraldi, triestino, è presidente onorario. Il suo ultimo film, Voci, che uscirà nelle sale a metà marzo è stato presentato nella giornata conclusiva del festival. E’ un poliziesco ispirato al romanzo di Dacia Maraini, una vicenda che si svolge non solo in una dinamica di azioni cruente, ma soprattutto all’interno di varie prese di coscienza. Protagonista una introversa giornalista, Valeria Bruni Tedeschi, che scopre l’assassinio della sua giovane vicina di casa: le sue indagini la portano verso strade inaspettate.
Giraldi ha spostato l’azione da Roma in una città di mare, poderosa e spettacolare. Ma non è Trieste, si tratta di Genova. Chiediamo al regista come mai non ha scelto la sua città: “E’ vero, qualcuno mi ha detto che avrei potuto scegliere Trieste, ma Trieste ha bisogno di giustificazioni più segrete. Genova invece rappresentava immagine, paesaggio, forza visiva, un carattere formidabile, come ci siamo resi conto fin dalle prime inquadrature fatte. Trieste ha troppe implicazioni anche segrete, più legate alla storia della città. Il rapporto con Genova è stato più libero”.
Avete fatto altri cambiamenti rispetto al romanzo?
Il romanzo, uscito nel ’94, è ambientato in una Roma dalle atmosfere tenui. La grande forza del romanzo sta nella sua passione per il mondo femminile ed è la ragione per cui ho fatto il film. E’ un film pensato per il cinema, dove tutto deve avere un rilievo più brutale, con la struttura di un giallo: avevo bisogno di un’ambientazione moderna. Oltre la città ho cambiato certi personaggi minori. E l’assassino. All’inizio Dacia Maraini non era d’accordo, poi ha accettato.
Non si dovrebbe parlare dell’assassino in un film giallo e non diremo chi è, ma bisogna dire che lei ha spostato abilmente l’attenzione.
Ho lasciato il vero colpevole, colpevole di seduzione perversa, di plagio. Ma il delitto è uno dei tanti delitti idioti che succedono oggi, di quelli che si leggono sui giornali, che potevano succedere e non succedere. Nel film oltre ai miei attori di culto – Valeria Bruni Tedeschi e Miki Manojlovich – che sono riuscito a far diventare i miei protagonisti, ci sono tre giovani attrici molto brave, Gabriella Pession, Sonia Bergamasco e Rossella Bergo, che è al suo primo film.
Perché ha scelto Alpe Adria?
E’ una scelta un po’ trasversale, legata alla mia origine e alla presenza di Manojlovich. Lui doveva essere la parte estroversa e irruenta della Tedeschi. Un altro dei temi del film è infatti l’attenzione verso il prossimo. In un mondo voyeuristico dove si spia il Grande Fratello, sempre meno siamo abituati a vedere cosa c’è dietro a un volto, un’espressione.
Trieste è una delle città italiane in cui è fiorita la passione per il cinema.
Callisto Cosulich e Tullio Kezich, che sono più grandi di me, sono stati i miei maestri. Ero ancora al liceo e Cosulich mi ha messo a dirigere il circolo del cinema di Trieste, un luogo molto sofisticato. Kezich lo considero come mio fratello. Questi sono stati i miei punti di riferimento. A Roma poi ho abitato da Cosulich e lì ho incontrato Gillo Pontecorvo con cui ho lavorato in Giovanna, un film di ambientazione operaia che è appena stato mostrato a Prato, città di tessili.
A proposito di maestri lei è stato anche l’assistente di Giuseppe De Santis. Cosa ha imparato da lui? Forse quel modo sottile di mettere in scena il personaggio femminile?
De Santis aveva un culto per l’universo femminile. Avevamo un modo simile di sentire, anche se io ero di formazione mitteleuropea e lui veniva piuttosto dalla lettura di Verga. De Santis è stato a lungo dimenticato, ma anche continuamente ricordato e soprattutto i grandi registi americani lo considerano un punto di riferimento.
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