FRANCESCO PATIERNO


Famiglie “pulp”, pulsioni primarie che esplodono senza mediazioni, violenze e prevaricazioni in agguato tra i fornelli, turpiloquio e insulti. E’ un labirinto senza uscite di sicurezza Pater familias, titolo che suona amaramente ironico, per l’opera prima di Francesco Patierno, selezionata a Berlino (Panorama), e già contesa tra distributori italiani. Un tragico fotoromanzo che attinge alle esistenze terremotate dei ragazzi di Giuliano, hinterland da cronaca nera, senza risparmiare colpi allo stomaco dello spettatore: un fratello stupra la sorella, un’altra ragazza è costretta dal padre a sposare il coetaneo che l’ha messa incinta e che la odia, un marito obbliga la moglie a fare sesso mentre ruba i risparmi del figlio. “Lo scheletro della famiglia è sotto gli occhi di tutti, la bomba è già esplosa anche se qualcuno non se n’è accorto”, dice Patierno. Napoletano, trentottenne, studi di architettura, regia di spot, ha scelto uno stile ermetico e al contempo iperrealista – realismo visionario dice lui – che fa pensare al cinema di Tarantino più che a quello di Capuano.

Consideri il tuo approccio fenomelogico?
Mi piace trasmettere esperienze visive senza lanciare un messaggio. Le cose che faccio vorrei che fossero organismi viventi, aperti a interpretazioni diverse. Nelle proiezioni-test molti spettatori, anche non smaliziati, mi hanno sorpreso per la capacità di vedere aspetti non evidenti nelle scelte dei personaggi.

Il mondo che descrivi è abbandonato da tutti. Lo Stato, la società civile, la politica sono latitanti o persi sullo sfondo.
L’assenza dello Stato fa parte della storia di quelle zone, dove prevale l’anarchia: dal passare col rosso fino al regolamento di conti per futili motivi. Quanto alla politica, mi considero un individualista, senza appartenenze, ma vorrei che il film servisse a liberare qualche coscienza… in fondo anche il protagonista Matteo riesce a fare qualcosa, aiuta Rosa a salvarsi. E’ un gesto singolo ma molto significativo.

Matteo salva Rosa aiutato da una suora. La Chiesa, con tutte le sue contraddizioni, sembra l’unico orizzonte di senso nel mondo che descrivi.
Non mi definirei cattolico, ma penso di avere un sentimento religioso, almeno ci giro intorno. In quasi tutte le scene, in effetti, ci sono santi e crocifissi, Madonne, segni della religiosità popolare. C’è un prete che forse è un po’ traffichino, c’è la suora che aiuta Rosa, magari a malincuore perché per tirarla fuori deve separarla dal marito.

Ti senti affine agli altri autori napoletani?
Sono felice che ci siano tanti autori nati artisticamente nella mia città – stimo in particolare Sorrentino, Martone, Capuano – ma credo sia una follia parlare di scuola napoletana. Mi piace soprattutto che una generazione, al di là della zona geografica, stia dando una spallata al cinema italiano: penso a Crialese e Garrone, in particolare.

Esordisci a 38 anni. Hai aspettato a lungo…
Avvertivo il pericolo insito nel fare un film, così ho rifiutato due progetti su commissione. Poi ho letto il romanzo di Massimo Cacciapuoti, un infermiere ventottenne di Giuliano, che raccontava in modo estremamente crudo la sua terra: il giorno dopo ho preso i diritti, poi ho incontrato l’autore. Difficile è stato trovare finanziamenti.

Racconta.
Mi hanno rifiutato l’articolo 8: conservo ancora la pagella della commissione, mi hanno dato tutti 4 e 5. Ma la cosa peggiore mi è accaduta con la Filmaster, che doveva inzialmente produrre il film ma che l’ha tenuto a lungo bloccato. Quando poi ho incontrato Umberto Massa della Kubla Khan, che aveva intenzione di produrlo, hanno preteso venti milioni per sciogliermi dal contratto. Per me era una cifra altissima, un vero sopruso.

Parliamo del cast: hai mescolato professionisti e non professionisti.
Sì, il 40% sono non professionisti e lavorano insieme ad attori come Marina Suma, Lucia Ragni, Ernesto Mahieux. Tra l’altro sul set si sono picchiati per davvero, qualcuno è finito al pronto soccorso.

Continuerai a lavorare con Kubla Khan?
Sì, faremo altri due film insieme. Il prossimo, Pericle il nero, è tratto da un romanzo di Giuseppe Ferrandino, la storia del tirapiedi di un boss che riscuote crediti e punisce chi ha sgarrato usando la sua potentissima erezione come arma impropria.

autore
03 Febbraio 2003

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