Flee è un “io”. Flee (ovvero “fuggi”) narra in prima persona, e la storia è quella di Amin (nome di fantasia), che racconta al migliore amico – Jonas Poher Rasmussen, il regista – la propria biografia, dalla fuga adolescenziale dal regime dei Mujahedeen, alla “casa” danese. Nel frattempo, molto reali e altrettanto disperate peripezie per sopravvivere, alla ricerca di un salvifico altrove.
Afghanistan, Anni ’90. Una famiglia, un papà che non c’è già più (ucciso prima da mano sovietica), una mamma e i suoi figli, costretti a lasciare la propria terra, tra clandestinità in territorio russo, necessità di non avere un’identità e abitudine a non esistere.
Flee, oltre a essere una biografia drammaticamente avvincente è anche un’eccezione da Oscar, infatti è il primo film animato nella Storia dell’Academy a essere candidato come Miglior Film Internazionale, Miglior Film d’Animazione e Miglior Documentario, sorte – quest’ultima – che conosceremo il prossimo 27 marzo, ma potendo prima conoscere Amin in sala, dove l’opera esce dal 10 marzo con I Wonder Pictures: Rasmussen, danese – come l’amico Amin in senso identitario, geografico e politico – ha passato e rotto i limiti dei confini.
Flee usa l’animazione, che trionfa un’altra volta nel confermarsi linguaggio capacissimo nel plasmarsi addosso al dramma reale e alla sfera emozionale dell’essere umano, non falsando con la propria estetica finzionale l’intensità ma anzi offrendole un’eco che perpetra il proprio “rumore” oltre il tempo della visione.
Come la vita è una linea, così lo è questa animazione – d’altronde lo hanno insegnato Maestri nostrani, Cavandoli o Bozzetto, per cui l’animazione sono “idee con intorno una linea”: è infatti con questo tratto sintetico che il racconto si traccia sullo schermo, a incidere il perimetro del vissuto di Amin, al contempo capace di restare in equilibrio tra rispettoso distacco e accorata empatia. L’essenza del disegno è specchio dell’elefantiaca pressione del vivere: Flee è coraggio e fallimento, buio – quello di una stiva che come un perverso ventre materno accoglie e traghetta – e luce, infine.
Flee ricorre anche a materiale di repertorio, immagini dal vero, sintetiche quanto strategiche sequenze tra le trame dell’animazione, così a partorire un affascinante docu-cartoon.
Il cinema, inoltre, qui non è solo strumento di narrazione e intrattenimento, non è solo esercizio artistico e di tecnica, ma è anche “terapia”, perché Amin, con il cinema, si è alleviato dal gravare della sua personalissima storia, altrettanto emblema di ricorrenti e universali lesioni dello spirito, che si perpetrano da sempre, senza lo spiraglio di una tregua nel tempo contemporaneo.
La biografia di Amin, la sua identità, s’annoda doppiamente su se stessa perché la vicenda storica che l’ha costretto alla fuga s’è intrecciata con quella più intima: Amin è omosessuale, altra declinazione del concetto identitario, che dunque s’è inanellata con quella natale, geografica, politica, ribadendo, senza eufemismi, le differenti ma assorellate cicatrici emotive incise nel proprio io, quello di un essere umano e quello di un cittadino del mondo, un mondo in cui la democrazia – spesso data per scontata – non sempre è il minimo sindacale a cui appellarsi per la propria libertà di individuo.
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