TORINO. “L’idea era quella di raccontare la nascita e la morte del grande sogno comunista in Italia affidandosi molto di più allo sguardo di un tempo che alle parole di oggi. I film amatoriali sono uno sguardo unico su un’epoca, un occhio soggettivo che vale più di qualsiasi ripensamento o smentita successiva”, spiegano Federico Ferrone e Michele Manzolini. Sono i giovani registi del film in concorso a Torino 31, Il treno va a Mosca, distribuito da Istituto Luce Cinecittà.
Il progetto, sviluppato all’interno del bando giovani artisti Fondazione culturale San Fedele, è una coproduzione Kiné e Vezfilm con Home Movies in associazione con Apapaja e Fondazione Cineteca di Bologna.
La fine di un’utopia, di una società ideale è narrata attraverso lo sguardo e i filmini in 8mm, come si diceva una volta, che il barbiere comunista Sauro Ravaglia, e con lui altri compagni di fede e di lotta, hanno girato a partire dagli anni ’50, in particolare in occasione del loro primo viaggio a Mosca. C’è anche il racconto/testimonianza dello stesso Ravaglia oggi, con funzioni spesso di raccordo narrativo, ma è la straordinaria parte visiva ad essere il cuore del film.
Un prezioso materiale conservato presso Home Movies-Archivio Nazionale del Film di Famiglia che raccoglie pellicole amatoriali (8mm, super 8, 9,5mm, 16mm) corrispondenti a circa 6mila ore di materiali.
Il viaggio, di cui parla il film, è quello che Sauro compie nel 1957, quando fa parte della delegazione italiana del Pci diretta a Mosca per il Festival mondiale della gioventù e degli studenti. E’ la prima volta fuori dell’Italia per Sauro, classe 1935 e di Alfonsine, uno dei tanti paesini della Romagna “rossa”, iscritto dal 1948 alla Federazione giovani comunisti italiani di cui diventa il presidente nel 1953.
Ma cosa succede quando si parte per filmare l’utopia e ci si trova di fronte la miseria, la coabitazione, e quelle immagini di donne muratori in cantieri edili? Eppure c’è chi canta nel film sulle note di ‘Mamma’, famosa canzone degli anni ’40: “Lenin la tua dottrina si diffonde e vola / Lenin la tua parola è quella che ci consola”.
Come avete trovato questi materiali 8mm?
Ferrone. Noi insieme a Claudio Giapponesi collaboriamo con Home Movies e la prima scoperta è stata quella di una parte dell’archivio del Fondo Pasi che conteneva per l’appunto il viaggio a Mosca. Da lì siamo arrivati ai familiari di Pasi che ci hanno fatto avere gli altri filmini da lui girati, poi a quelli di Pattuelli, il professore, e infine il mitico Sauro Ravaglia, anche lui come gli altri cineamatore. Inoltre abbiamo utilizzato, in piccola percentuale, alcuni filmati coevi sempre di comunisti di Alfonsine. Non va poi dimenticato un grosso lavoro di restauro realizzato dalla Camera Ottica di Gorizia.
Ma il punto di partenza del film quale è stato?
Ferrone. Un’idea vaga di raccontare l’utopia sovietica, l’Emilia rossa. Abbiamo trascorso alcuni pomeriggi all’Archivio finché non ci hanno indirizzato sul Fondo Pasi, che era stato un militante e un partigiano. Il confronto con questi materiali ha poi innescato la storia, ci è sembrato da subito il nucleo originale e forte su cui costruire il film.
E come è arrivato Sauro?
Manzolini. Noi avevamo cominciato a lavorare con il professore che purtroppo è poi morto e quindi è rimasto solo Sauro, l’unico vivo di quei militanti. Sauro incarna quelli che sono i suoi due maestri, un po’ più anziani, che gli hanno insegnato anche a usare la cinepresa, è la voce collettiva del gruppo.
Quale è stata la difficoltà più grande del vostro lavoro?
Manzolini. Montare questi materiali amatoriali, ore ed ore di girato, documenti privati e pubblici che sono altro dai materiali già confezionati dell’Archivio Luce. Abbiamo dato una forma narrativa che il materiale non aveva e grazie a un lavoro durato mesi e curato da Sara Fgaier, montatrice de La bocca del lupo di Pietro Marcello.
Ferrone. Si trattava di materiali caotici a cui è stata data una fluidità narrativa perché s’interrompevano spesso, con continui cambi di luce, d’inquadratura. Sara ha lavorato quasi in modo maniacale, frame by frame, per ricreare una sorta di azione.
Il vostro è in fondo un racconto di formazione?
Ferrone. Sì, Sauro parte con un’utopia gigantesca e torna semplicemente con le sue impressioni, ma fa i conti con chi ad Alfonsine gli dice di non dilungarsi troppo sugli aspetti negativi che hanno visto, di raccontare solo la versione ufficiale. Manzolini. Il confronto con il paradiso idealizzato non regge più, Sauro torna a casa con una consapevolezza diversa che anticipa di poco quella del Pci. Perciò abbiamo chiuso con la morte di Palmiro Togliatti che segna la fine di un’epoca. Non a caso Sauro prende una traiettoria ulteriore, va in Algeria con i gruppi di estrema sinistra, ma non si riconosce in loro.
Che impressione vi ha fatto questa utopia di Sauro?
Ferrone. Di malinconia, ma non per quegli anni che ovviamente non abbiamo conosciuto e che neppure possiamo replicare. Noi siamo la generazione senza utopie, che vive in un momento in cui qualsiasi impegno politico è disprezzato. Manzolini. Sauro vive un momento in cui si crede che la politica possa migliorare il mondo, ma al di là dell’Urss, richiamandosi a quello spirito di pace e fratellanza che è anche del festival a cui partecipa.
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