Davide Ferrario, quasi cinquant’anni, una filmografia sorprendente che spazia da film “alimentari” come la commedia di Luciana Littizzetto al piccolo gioiello romantico-cinefilo Dopo mezzanotte. Ha scritto anche un romanzo, pure quello cinefilo, nel ’94, “Dissolvenza al nero”, un romanzo che prende spunto da episodio della carriera di Orson Welles, quando il geniale cineasta venne a Roma nel ’47 per interpretare Cagliostro in una megaproduzione e che diventa un noir in piena regola, un noir classico, con intrighi politici, i preti, i comunisti, l’amore per Lea Padovani… Quel libro, tradotto in molte lingue e vincitore del Premio Hemingway, sta per diventare un film americano, Fade to black, diretto da Oliver Parker (lo conosciamo come specialista di Oscar Wilde), interpretato da Danny Huston, Anna Galiena, Paz Vega, Violante Placido.
Intanto, incerto fra tre progetti già pronti e ingaggiato da Ronconi per le riprese del suo Troilo e Cressida allestito nei cantieri di Porta Susa in una città che stanno rivoltando come un calzino in vista delle Olimpiadi 2006, sta ultimando il montaggio del primo documentario ammesso al fondo di garanzia, un bel progetto su Primo Levi e il ritorno da Auschwitz (La strada di Levi) che con ogni probabilità vedremo a Cannes. Ma Davide, al Torino Film Festival, è venuto per un impegno radicalmente diverso: un impegno che da cinque anni l’ha portato a fare volontariato in carcere, prima a San Vittore, ora che vive sulla collina torinese alle Vallette. Da questa esperienza, non ancora interrotta, sono scaturiti due lavori: Fine amore mai, presentato proprio qui al festival nel 2001, e Ho visto Suzanne, fuori concorso in questa edizione. Mentre alla Mole è in corso una mostra di scatti, “Foto da galera”, che nasce da un’improvvisa ispirazione per uno che “non è un fotografo né pensa di diventarlo”. Nell’estate del 2002 il regista bergamasco è passato per il quarto e quinto raggio di San Vittore svuotati in vista di una ristrutturazione. Trovando in quelle celle fatiscenti e appena abbandonate, che nel giro di 48 ore sarebbero finite in mano a muratori e carpentieri, graffiti, disegni, immagini, frammenti, pacchetti di sigarette e altri oggetti riciclati, ha pensato che l’unico mezzo per conservarle fosse la fotografia. Da quegli scatti è nato un bellissimo libro edito da Mazzotta che documenta davvero i capolavori di artisti inconsapevoli, come li definisce, “senza alcun intento sociologico”. Lo stesso si può dire del filmato realizzato a partire dal laboratorio teatrale di Claudio Montagna con i detenuti della VI sezione della Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, intitolato, come lo spettacolo, Ho visto Suzanne. Un happening in cui è forte l’elemento d’improvvisazione e labile il confine tra verità e mistificazione, ma dove gli attori mettono “sinceramente” in scena le loro pulsioni, il desiderio, la tensione verso l’incontro con un femminile perfettamente appagante, irraggiungibile anche fuori dalle sbarre, che è anche il mito di una vita autenticamente vissuta. La celebre ballata di Leonard Cohen diventa il simbolo di questa ricerca per certi versi beckettiana, ma il film, come del resto le foto del volume, ha, giustamente, un livello di lettura e di fruizione molto più concreta, terrestre, spesso ironica, che è il concentrarsi sull’affettività e la sessualità come bisogno ineludibile (diritto, si direbbe) dell’essere umano. Il che vale, certo, non solo per chi sta dentro.
Un carcerato che dopo 22 anni di galera ha appena ottenuto la semilibertà e la riperde perché scoprono che usa la breve pausa pranzo per incontrare una donna che ha conosciuto, dice: “Se mi fate uscire e tutta la libertà che mi date è prendere la metro, lavorare, mangiare un tramezzino sempre allo stesso bar e la sera tornare dentro a guardare la tv, che cazzo me ne faccio? È vita, questa?”. È la vita di tanti là fuori, riflette Ferrario, che poi tornano a casa per seppellirsi dietro una porta blindata costata mille euro, senza mai una domanda sul senso della propria vita”.
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