Fabio e Damiano D’Innocenzo: “Album di famiglia con orrore”

Fabio e Damiano D’Innocenzo, 32enni gemelli romani, tornano a Berlino, in concorso, con l'opera seconda Favolacce


BERLINO – “Una favola nera, ambientata in un mondo apparentemente normale dove silente cova il sadismo dei padri e la rabbia dei figli, diligenti e disperati”. Così Fabio e Damiano D’Innocenzo, 31enni gemelli romani, sintetizzano Favolacce, il loro secondo film, dopo La terra dell’abbastanza, con cui tornano a Berlino, stavolta in concorso. Prodotto da Pepito con Rai Cinema e Vision Distribution, in sala il 16 aprile (sempre che l’emergenza coronavirus dia tregua al cinema italiano), nel film emerge uno sguardo tenero e crudele, ricco di echi cinematografici (da Gus Van Sant a Seidl) ma anche assolutamente personale, nutrito di letteratura – tra i modelli citati L’antologia di Spoon River e scrittori come Vonnegut, Ibsen e Updike.

Siamo in provincia di Roma, in un ambiente sociale piccolo borghese privo di punti di riferimento, villette tutte uguali, vita scolastica e festicciole. Un senso di minaccia costante, di disperazione soffocante emerge da queste esistenze banali che vengono raccontate come attraverso un diario infantile trovato, forse vero, forse falso. I bambini sono spettatori di un degrado umano che non si stempera nel trantran. I genitori sono inadeguati, imprevedibili nei loro scatti ai limiti della psicosi. Unica fonte di ispirazione, sia pure malata, sembra essere quel professore di scuola media che ti spiega come fabbricare una bomba casalinga o come usare un disinfestante per uccidere.

Elio Germano nel ruolo di un padre frustrato e prevaricatore, guida un gruppo di attori che lavora in assoluta coralità. Tra questi, Barbara Chichiarelli, Max Malatesta, Lino Musella, Ileana D’Ambra. Il narratore è Max Tortora. Il film è dedicato a Tiziana Soudani, la produttrice ticinese da poco scomparsa che è tra i crediti produttivi.

Da cosa siete partiti nella scrittura del film?

Fabio. I bambini di Favolacce siamo noi da piccoli, ci sono tanti ricordi spezzati della nostra infanzia che riappaiono in modo lieve e sognante. Ma il film non è autobiografico. Nessuno di noi ha avuto un’infanzia meravigliosa, perché in quegli anni non si conoscono le regole del gioco. Avevamo scritto questa storia a 19 anni, e ci siamo detti che dovevamo girarla ora che stiamo diventando vecchi, dopo sarebbe stato tardi.

Damiano. Già, non volevamo uno sguardo alla Haneke. Da bambino hai una percezione straordinariamente acuta e perspicace, vedi cose tremende e ti dici che quando sarai grande sarà tutto diverso, ma non è così. Era il momento giusto per fare Favolacce, perché adesso siamo in perfetto equilibrio tra l’essere bambini e adulti.

Il contesto sociale della vicenda è sfumato. Sono persone che hanno abbastanza per vivere, qualcuno si lamenta di aver perso il lavoro, qualcun altro ha appena trovato un business con cui spera di fare i soldi nel settore dei disinfestanti. Un terzo genitore, un ragazzo padre, fa il cameriere in una pizzeria e vive in una roulotte. Come descrivereste il ceto di questi personaggi?

Fabio. Abbiamo cercato di estirpare il punto di vista economico dalla storia. In La terra dell’abbastanza era legittimo fare questo ragionamento perché i due ragazzi venivano chiaramente dalla periferia, ma questo era anche un alibi per chi guardava il film, un modo per dire “non mi riguarda veramente”. Adesso ci siamo distaccati dal realismo, sociale e geografico. La violenza dei personaggi nasce dalla paura di perdere un ruolo che ciascuno di loro si è autoassegnato. Mentre la cronaca si archivia, l’archetipo resta.

Damiano. È una piccola borghesia di provincia. Anche questo parte della nostra infanzia trascorsa in parte ad Anzio e sul litorale laziale. Queste persone hanno aspirazioni, si sono comprati queste casette sperando in un ascensore sociale che non è arrivato. Ci sono echi del berlusconismo e del salvinismo. Dicono cose orribili e si sentono anche legittimati a dirle. Ma non volevamo che tra dieci anni il film risultasse datato. Abbiamo scelto queste casette non ancora finite nella zona di Nepi anche perché sono anonime e non hanno una recinzione, abbiamo messo solo delle staccionate.

In che modo siete passati stilisticamente e produttivamente da La terra dell’abbastanza a Favolacce?

Fabio. Non c’è stato niente di programmatico. Paola Malanga di Rai Cinema ha insistito perché facessimo un film più nostro, non dico ombelicale ma che fosse come un album di famiglia. Per il primo film abbiamo scelto il genere anche per dimostrare di saper usare la macchina da presa. Favolacce sarebbe stato impossibile come esordio. I nostri riferimenti sono Carver, Yates, Updike, tanta letteratura, un immaginario sospeso, americano, in cui c’è anche Charlie Brown. Siamo nati con questi scenari, per noi sono luoghi della mente.

Da Panorama al concorso. Come vi sentite a entrare dalla porta principale?

Damiano. Siamo abituati a passare dal retro e a scavalcare. Ci sentiamo imbarazzati.

Il tema della sessualità percorre tutto il racconto. C’è la brama predatoria dei padri, l’atteggiamento passivo aggressivo delle madri, e ci sono i bambini che subiscono un erotismo precoce, in parte imposto dagli adulti. Che riflessione avete fatto su questo?

 Damiano. Volevamo che si sentisse il tanfo della sessualità. Quando uno è bambino gli adulti hanno queste uscite gratuite, oscene, ma anche i ragazzini hanno pensieri erotici. Due riferimenti: A mia sorella! di Catherine Breillat e Zona di guerra di Tim Roth. Abbiamo cercato di ricordare cosa si prova da bambini quando hai a che fare con una donna, che all’inizio non ti attira perché sei asessuato, poi da un giorno all’altro senti che c’è qualcosa che vorresti. Ti ammalia, ti fa vergognare e arrossire. C’è la purezza dei bambini che provano a fingere una grandissima consapevolezza. Per gli adulti invece è pornografia, quindi il contrario del desiderio.

Come avete lavorato sul cast?

Fabio. Nel primo film ci sono due personaggi principali ben delineati, qui c’è il villaggio, il mondo. Questo ci riportava all’Antologia di Spoon River, il nostro libro preferito. Con i bambini abbiamo lavorato senza acting coach, ci siamo messi alla loro altezza e abbiamo dialogato con loro in maniera aperta. Ci sono stati momenti di grande emozione, anche perché loro non avevano letto il copione e non sapevano cosa sarebbe accaduto.

Elio Germano come è entrato nel progetto?

Fabio. Il ruolo di Elio sulla carta non era straordinario, aveva poche scene. Ma richiedeva un attore che avesse una grande sensibilità e la voglia di mettersi a nudo come facciamo anche noi. Elio è difficile da raggiungere, perché è molto appartato, ma quando ha letto il copione ha voluto subito farlo.

Vi sentite parte di un movimento di rinnovamento del cinema italiano?

Damiano. I giovani autori sono tutti coraggiosi. Non vorrei che si creassero delle fazioni come è accaduto nella generazione precedente. Quando i ragazzi mi scrivono per chiedere consigli, io rispondo con dei papiri. C’è un’energia bellissima. Mi riferisco ad autori come Valentina Pedicini, Chiara Bellosi, Carlo Sironi, e poi naturalmente Jonas Carpignano e Alice Rohrwacher. Sento una felicità dei giovani nel fare cinema. Pensavo che il cinema fosse una cosa per gente arrabbiata, invece no.

Cosa è cambiato tra di voi con l’arrivo del riconoscimento?

Damiano. Questo è il nostro sogno, ma dobbiamo rimanere umili. Quando si comincia a essere stanchi, si fanno film insopportabili. Non vogliamo diventare mai i registi con la sciarpa. Ma è difficile perché le luci della ribalta sono belle. Mi aiutano molto il mio cane e la mia ragazza che è tifosa del Lecce e mi riporta alla vita vera, parliamo di calcio. Altrimenti te la canti e te la suoni. Essere in due con Fabio è importante perché hai costantemente qualcuno che ti ferma.

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25 Febbraio 2020

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