Ettore Scola: “Ai giovani dico: meno autobiografia”


TORINO – Gianni Amelio cerca di convincerlo a fare un “ultimo” film. Ettore Scola si tira indietro e rintuzza: “Fallo tu”. Il nuovo progetto a quanto pare c’è già. Ma il regista di Trevico non ne vuole parlare. Anzi, non ne vuole sapere. “Sono come un vecchio falegname che sa tutto di ebanisteria ma è troppo pigro o stanco per piallare. E poi l’esperienza di altri colleghi come Chaplin e De Sica non conforta. A Torino per ricevere il Gran Premio – avrebbe dovuto condividere l’onore con Ken Loach – l’autore di C’eravamo tanto amati partecipa anche alla proiezione del documentario di Francesco Martinotti Furio Scarpelli, il racconto prima di tutto, ritratto del grande sceneggiatore e complice di cui dice: “Saremmo stati comunque amici, anche se avessimo fatto i falegnami”. Ed è stato proprio Scarpelli, una sera al Pantheon, a presentare Ettore e Gianni Amelio. Da lì è nata un’amicizia che porta fin qui, alla serata conclusiva del 30° Torino Film Festival, quando si vedrà anche un montaggio di otto minuti dai suoi film più belli.

 

Come considera questo premio?

Alcuni premi alla carriera sembrano chiodi sul coperchio della bara perché non si muova, ma non questo.

Ha fatto tutti film diversi, dalla commedia alla satira al dramma alla storia…

E’ vero, da un film all’altro ho cercato di spiazzarmi, ma l’ho fatto per pigrizia. Il mestiere di regista è il più duro e noioso che ci sia, lo posso ben dire io che sono stato giornalista, disegnatore e “negro” di Mez e Marchesi. Come regista cercavo di inventare qualcosa di nuovo ogni volta, cambiando il genere, lo stile, la narrazione, per non dover dire: questo l’ho già fatto.

 

Lei è celebre per il suo essere schivo.

Ho difficoltà a parlare di me, lo trovo noiosissimo. Se mi sottraggo alle interviste, non è per spocchia. Al contrario di Zavattini, che diceva “Parliamo tanto di me”, io non amo farlo. Salvo in occasioni come questa, particolarmente gradite anche se il premio in sé sarà un altro oggetto impresentabile. Ho persino un premio finlandese, la scultura di un contadino che semina, a grandezza d’uomo.

 

A Torino la lega un rapporto molto forte.

Torino è stata la mia città di adozione. Sono venuto nell’autunno caldo del ’69, ero iscritto a un partito che non c’è più. Nel ’73 ho fatto Trevico-Torino Viaggio nel Fiat- Nam, sceneggiato da Diego Novelli che due anni dopo sarebbe diventato sindaco. Nell’82 ho realizzato il documentario Vorrei che volo, cronaca della vita di un ragazzino di 11 anni, Massimino, recluso nel carcere minorile Ferrante Aporti. Lo avevo avuto in affidamento e lo filmammo in giro per la città: lo autorizzai a rubare. A Torino ho girato anche Passione d’amore, tratto da una novella di Iginio Ugo Tarchetti sul diritto alla bruttezza.

 

Com’è cambiata la Fiat?

La Fiat ha sempre avuto personaggi particolari che decidevano il destino di migliaia di persone come un tempo Valletta.

 

Ha criticato la scelta di Ken Loach di rinunciare al premio.

Sono stupito che il mio amico Loach, che conosco da tanti anni e che è comunista come me, anzi più di me, abbia deciso di non venire. Non basta questo paternalismo all’operaio in difficoltà, bisogna capire per difenderlo meglio. Ma ognuno è padrone di decidere a suo modo.

 

Lei infatti oggi incontrerà i lavoratori della Rear.

Quando mi hanno scritto, come hanno scritto a Ken Loach, ho detto che avrei voluto incontrarli, per capire, non per fare l’arbitro. Sono persone svantaggiate che si sentono trattate male e isolate, in un periodo in cui sindacati sono divisi. Negli anni ’70 c’era una fiducia nei sindacati che ora non c’è più. Non è un buon momento per essere licenziati.

Che ricordo ha di Furio Scarpelli?

Nessuno di noi è un fungo, tutti siamo diventati quello che siamo per merito di altri. Furio è tra le 3 o 4 persone fondamentali per me. Lo incontrai quando, da ragazzo coi calzoni alla zuava, andai a collaborare al Marc’Aurelio. Furio faceva il negro per i film di Macario, io per quelli di Totò. Aveva passione e interesse per il proprio paese in un periodo in cui le macerie della guerra erano ovunque. Oggi ci sono macerie morali e intellettuali e ci sarebbe molto da fare. Perciò mi stupisco che i giovani si dedichino all’autobiografia, che se non sei Hemingway è del tutto inutile. Il cinema italiano soffre molto di questo. Eppure i tempi sono fertilissimi, però bisogna amare l’Italia per fare un bel film italiano. La crisi del cinema è legata alla crisi di una coscienza sociale e civile.

 

C’è qualche giovane regista che continua su questa strada?

Ce ne sono, quelli che non pensano alla propria biografia ma a fare ritratto del paese: Sorrentino, Garrone, Incerti, il giovane Risi e, visto che è qui, anche Martinotti.

autore
30 Novembre 2012

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