Vedendo uno dei film apparentemente più umili di Rohmer, ora non ricordo bene quale fosse, se Il raggio verde, oppure Reinette e Mirabelle, o ancora L’albero, il sindaco e la mediateca, o infine Incontri a Parigi, di certo uno dei suoi film girati con criteri quasi amatoriali, in 16 mm., mi domandai perché i produttori si ostinino a lesinare i mezzi ai registi debuttanti, mentre sono pronti ad assecondare ogni capriccio dei registi arrivati. Sarebbe più prudente affidare un film costoso a un regista in procinto di girare il suo primo lungometraggio e costringere i vecchi professionisti, rotti a tutte le astuzie del mestiere, a realizzare imprese ben più difficili, come quella di dirigere un film in 16 mm., che poi, opportunamente gonfiato, possa competere in sala con i prodotti cosiddetti miliardari.
In fondo uno dei film più accettabili (e redditizi) interpretati da Sylvester Stallone negli anni Novanta, Demolition Man, fu realizzato da certo Brambilla Marco di Milano, che nel suo curriculum vantava soltanto qualche spot pubblicitario. Sorprendente? Mica tanto, se al debuttante offri il sostegno del formidabile apparato tecnico-organizzativo di Hollywood, dei credits di superiore qualità, degli attori bravi e amati dal pubblico. Equivale a offrire la Filarmonica di Berlino a un direttore d’orchestra alle prime armi: qualcosa di dignitoso uscirà comunque. Insomma, sfido chiunque a distinguere sul piano della fattura Demolition Man dagli altri film interpretati da Stallone e diretti da vecchi marpioni della regia, sia detto senza offesa, quali John Avildsen, Richard Donner o Renny Harlin.
Al contrario, sfido chiunque a trovare nei sopracitati film di Rohmer quei segni di pressapochismo e d’indigenza che abitualmente si riscontrano in tante opere prime di giovani, magari non privi di talento, costretti a fare di necessità virtù. Fare un film presentabile con pochi mezzi è molto più difficile che realizzarlo avendo a disposizione parecchi miliardi. Tanto per fare un esempio a noi vicino, quanti registi sarebbero capaci di realizzare con la stessa maestria di Luciano Emmer un film affascinante come Una lunga, lunga, lunga notte d’amore, la cui produzione certamente non nuotava nell’oro?
Emmer e Rohmer hanno superato l’ottantina, un’età in altri tempi proibita ai registi, per la riluttanza ad assicurarli delle società addette all’uopo. Oggi il problema pare risolto, poiché si moltiplica il numero dei vegliardi in pieno rigoglio creativo. Tanto vero che il “Leone” alla carriera a Rohmer non può assolutamente considerarsi un evento giubilatorio. Tenuto conto, tra l’altro, che l’evento è accompagnato dalla presentazione in prima mondiale del suo ultimo film, L’anglaise et le duc, che per le ricostruzioni storiche fa largo uso del digitale, cioè di una tecnica in continua evoluzione, tanto da rendere già arcaico l’impiego che ne fece Ridley Scott ne Il gladiatore. È servito, quindi, chi pensa a Rohmer, come a un vecchietto aggrappato agli strumenti tradizionali del cinema, tal quale certi giornalisti e scrittori, che ignorano il computer e non potrebbero separarsi dalla loro Olivetti Lettera 35.
Rohmer è tutt’altro che un sorpassato, un “classico” da porre in bacheca; i suoi film sono uno più stimolante dell’altro, se vogliamo anche pieni di contraddizioni, così com’è contradditoria l’attività critica che egli ha svolto con il nome di battesimo, Maurice Scherer, prima d’intraprendere la carriera registica. Certo, chi è rimasto drogato dagli effetti speciali, coi quali il recente cinema americano tenta di nascondere la sua – speriamo contingente – stitichezza, riterrà il suo un cinema “all’antica”, magari viziato dall’eccessivo uso della parola. In realtà costui sfonderebbe una porta aperta, poiché Rohmer da sempre afferma che il cinema ha raggiunto la pienezza dei suoi mezzi espressivi solo al momento in cui è entrato in possesso della parola. Al contrario della maggioranza dei suoi coetanei che nella nascita del film sonoro e parlato hanno ravvisato la data in cui il cinema ha perduto la propria verginità.
Secondo Rohmer, l’assenza della parola costringeva gli autori a caricare le immagini di una simbolicità che non le era propria, che la snaturava. Gli autori rischiavano così di subordinare ad altri interessi la costruzione dello “spazio filmico”, cioè la finalità suprema del linguaggio cinematografico, poiché lo “spazio filmico” ingloba le due fasi precedenti che presiedono alla nascita del linguaggio cinematografico: quella dello “spazio pittorico” e quella dello “spazio architettonico”.
Lo “spazio filmico” non si limita a esaltare la bellezza delle immagini, ma assicura loro la funzione narrativa. E, la funzione narrativa, la si raggiunge quanto più lo spettatore dimentica l’esistenza della macchina da presa. I piani sequenza con la cinepresa in eterno movimento mettono in sospetto Rohmer. Rohmer preferisce un cinema fondato sul movimento dei personaggi a un cinema che invece privilegia il movimento della camera. In questo caso gli viene quasi sempre il dubbio che il regista muova la camera non perché lo richieda la situazione, ma per timore di essere noioso. Rohmer, detto per inciso, teme come la peste i film “noiosi”. I suoi autori di culto? Renoir, Rossellini, Hitchcock, Hawks, Murnau soprattutto, anche se è morto prima che il film sonoro e parlato divenisse un fatto compiuto.
Ma, come dicevamo, Rohmer è intrigante proprio per le sue contraddizioni. Strano, per esempio, che non nomini mai Lubitsch, il regista che mi pare a lui più vicino, l’autore che, nel periodo del muto, è riuscito a fare un capolavoro come Il ventaglio di Lady Windermere, trascrizione fedele della commedia omonima di Oscar Wilde, apprezzata soprattutto per la brillantezza dei suoi dialoghi! Lubitsch, rimasto famoso per il “Lubitsch Touch”. Anche per Rohmer, ripensando ai suoi film, si potrebbe parlare del “Rohmer Touch”. Non so per quale altro regista attualmente in attività potremmo farlo.
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