Con la sua carica di umanità, sentimenti sinceri e umorismo scorretto, potrebbe diventare il Quasi amici di quest’anno il nuovo film di Eric Lartigau, La famiglia Bélier, la cui protagonista (Louane Emera, scoperta nel talent show The voice), è un’adolescente di campagna, che vive con i suoi genitori a trecento chilometri da Parigi. Niente di strano, se non fosse che lei è l’unica a sentirci. I suoi sono tutti sordomuti: il papà François Damiens, già visto ne Il truffacuori, la mamma Karin Viard – lunga carriera, ma la ricordiamo particolarmente in L’odio, Delicatessen e Potiche – e il fratellino Luca Gelberg, esordiente e unico effettivo non udente tra i protagonisti. La giovane Paula è l’unica in grado di fare da tramite tra la sua famiglia e il mondo, e il dramma (con molti risvolti ironici) scoppia quando il suo maestro di canto (Eric Elmosnino) scopre in lei un talento da soprano e le propone di studiare per diventare una professionista e trasferirsi nella Capitale. Già enorme successo in Francia, la pellicola arriva da noi il 26 marzo con BiM.
Abbiamo chiesto al regista di parlarcene.
Qual è il tema principale del film e perché riscuote tutto questo successo?
Per me è soprattutto una storia di famiglia, un tema che mi ha sempre affascinato e che infatti avevo trattato anche nei miei precedenti film, Prestami la tua mano con Charlotte Gainsbourg e L’uomo che voleva vivere la sua vita con Romain Duris. Entrambi parlavano del distacco e della fuga, ma stavolta avevo sott’occhio il punto di vista dell’adolescente, quindi un’età complessa, contraddittoria, in cui si sviluppano paranoie e già in condizioni normali si ha l’impressione di non essere ascoltati dalla propria famiglia. Figuriamoci in questo caso.
Il film fa molto ridere e commuove, ma non ci è certo andato leggero…
In alcune scene ci sono frasi terribili. In una in particolare la madre dichiara alla propria figlia di non riuscire ad accettarla perché nata col dono dell’udito, e che il fatto che sua figlia ci senta per lei è una disgrazia. Ho fatto leggere la sceneggiatura a dei sordomuti e mi hanno detto: “Ce ne hai di coraggio. E’ quello che tutti penseremmo in questa situazione ma non lo ammetteremmo mai. E’ terribile, ma è la verità”.
Il che rende le scelte per la figlia ancora più difficili…
Ci vuole coraggio per abbandonare il nido e imboccare la propria strada, bisogna superare il timore degli incontri che faremo. Ogni volta ci chiediamo: ci sosterranno o ci ostacoleranno?
Un altro tema importante è quello dell’arte, in questo caso la musica…
Volevo che le emozioni del film fossero molto istintive, di primo livello. Volevo un’opera ‘naturalista’ e primordiale, che però fosse realistica e parlasse del presente. Il canto lo sento molto idoneo e affine a questo tipo di sensibilità, e Louane in particolare lo esprime con grande forza, senza nemmeno rendersi conto dell’emozione che è in grado di trasmettere. Inizialmente sembra molto fragile. Da quando l’ho vista nel talent show l’ho sempre pensato. Inizia una canzone e sembra che non sarà in grado di portarla a termine, ma alla fine ce la fa e con un carico di emozione sempre crescente.
E a livello cinematografico, tutto questo come si traduce?
Assume una valenza particolare perché Paula mostra proprio il talento di cui i suoi genitori non sono in grado di fruire. Sarebbe stato diverso se fosse stata brava nella pittura o nella scultura. Poi c’è una musicalità propria anche nella lingua dei segni, non solo l’aspetto visuale ma anche l’espressione del volto e la postura del corpo diventano importanti, e questo si amalgama alla perfezione nel finale, in cui la protagonista canta e al contempo gesticola per far comprendere il testo ai suoi genitori.
Nel cast c’è anche un vero sordomuto…
Ce ne sono due per la verità. Uno fa un po’ di casino in paese, l’altro è appunto il fratellino della protagonista, nella finzione. E’ un ragazzo molto sveglio, al suo esordio, ama il cinema e la fotografia, è un mago col Photoshop. E’ stato estremamente spontaneo, perfino quando si è trovato davanti una troupe completa, con tante persone. Facevamo un gioco, per creare intimità. Siccome sa leggere benissimo le labbra io gli davo delle indicazioni solo muovendo la bocca, così che nessuno potesse sentire, e lui mi faceva il segno dell’Ok da lontano. Aveva capito solo lui.
Gli altri attori come si sono preparati?
Hanno lavorato molto per sei mesi con un ritmo di quattro ore al giorno. Volevo che imparassero il linguaggio dei segni e sapessero i dialoghi a memoria, ma anche le posizioni del corpo e le espressioni del viso. Dovete sapere che i sordomuti usando molto il corpo sono in grado di comprendere gli atteggiamenti di ciascuno anche solo osservando il modo in cui si siede o si muove, sono molto percettivi. E inizierebbero pure a fare dei commenti che potrebbero metterci in imbarazzo. Amano la musica techno perché riescono a percepirne i bassi così potenti. Poi usano dei codici particolari per attirare l’attenzione, come battere un piede a terra o accendere e spegnere ripetutamente la luce. Volevo che imparassero tutte queste cose.
C’è stata anche la difficoltà di lavorare con degli adolescenti…
Non amo imporre un’emozione, voglio che ci arrivino spontaneamente. Louane ci ha messo un po’ per entrare nel ruolo, come tutti gli adolescenti era spesso agitata e aveva problemi di concentrazione, ma poi riusciva a fare tutto in maniera estremamente naturale. Con gli attori di solito di da un percorso inverso, dall’impostazione alla naturalezza, lei dovevo incanalarla e la cosa bizzarra è che quello che funzionava il giorno prima, con lei, il giorno dopo non aveva più effetto e dovevo trovare una nuova strada. E’ stato forse il mio set più faticoso ma anche molto appassionante. Inoltre, lei è un’attrice che canta, non una cantante che non sa fare l’attrice, e una ragazza di grande intelligenza. Era in un momento in cui la sua vita era stata letteralmente sconvolta. Viveva in una provincia del Nord e tutto a un tratto si è trovata prima nel Talent Show e poi catapultata sul set come protagonista.
C’è una bellissima sequenza di canto in silenzio, dove lei simula la sordità anche per gli spettatori. Ce ne può parlare?
Non ci si può totalmente identificare in un sordo ma ho cercato di ricostruire la frustrazione che può generare essere privati di questo senso. Quando l’hanno letta i produttori si sono un po’ spaventati, mi hanno detto: ok ma girala anche con i suoni, non si sa mai, se non dovesse funzionare. Però alla fine hanno capito. Poi devo dire che mi hanno lasciato totale libertà.
Perché ha scelto di ambientare la storia in campagna?
Perché aumentava la drammaticità della situazione. In città sarebbe stato più facile trovare traduttori per il linguaggio dei segni, in questo caso invece i genitori di Paula sono totalmente dipendenti dalla figlia. Se lei se ne va sono tagliati fuori dal mondo. Ho visto anche dei documentari sugli agricoltori sordomuti, inoltre sono cresciuto io stesso in campagna, in Bretagna, dai miei cugini, e l’ambiente mi piace. Le mucche, la terra, mi piace tutto.
Si cita anche Hollande. Ci si chiede perché non sia riuscito a risolvere nulla…
E’ una domanda che si pongono tutti.
Per affrontare i problemi è necessaria la leggerezza?
Io sono sempre passato per il riso e la commedia, aiuta a far passare le informazioni, questo film poi ha un ritmo, una musica, mi serviva che lo spettatore non si annoiasse mai e doveva provare tante emozioni differenti. Poi voi italiano lo sapete meglio di me, la commedia ci mette un attimo a sfociare nel dramma, pensate ad Age e Scarpelli.
Il maestro di canto dice a Paula: cerca di essere meno intelligente, di pensare meno. E’ lo stesso metodo che ha usato lei con Louane?
Sì e no. A volte è meglio che gli attori non comprendano esattamente. Tanti mi hanno detto: ‘non capivo dove mi volevi portare, ma comunque alla fine ci siamo arrivati’. Neil Harris ogni giorno mi chiamava nella sua roulotte e mi diceva: ‘sei cosciente che questa scena non serve a niente nel film?’. E io: ‘ma certamente’. E lui: ‘E’ totalmente inutile’. E io: ‘Lo so. Hai ragione’. E lui: ‘Ok. Ma la giriamo comunque’. E io:’ Sì, certo’. Quelli della troupe mi dicevano: ‘Lascialo stare, è di pessimo umore’. Alla fine del film mi ha detto: ‘sei un disgraziato. Non mi sono reso minimamente conto di dove mi stessi portando’. Lo stesso con Romain Duris. A volte senza spiegargli nulla gli dicevo: ‘fermo così’. E iniziavo a filmarlo. Bisogna anche rubare qualcosa agli attori, a volte. Altre volte gli do invece delle indicazioni precise: quando senti questa parola, fai questo. Quando senti quest’altra, fai quello. Così loro si aspettano uno schema ben preciso. Poi glie lo cambio all’improvviso, per ottenere qualcosa di singolare.
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