Toscano, classe 1975, Emanuele Nespeca è il produttore italiano ospite a Cannes di Producers on the Move, l’iniziativa, coordinata per l’Italia da Luce Cinecittà e organizzata da European Film Promotion (EFP), che permette a venti produttori emergenti di altrettanti paesi europei di prendere parte a una serie di incontri professionali dall’11 al 22 maggio sulla Croisette, proprio durante il Festival e soprattutto durante il Marché. Per il produttore di titoli come Banat Il viaggio di Adriano Valerio – in concorso alla Settimana della Critica 2015 – questo invito è un riconoscimento del suo impegno nella co-produzione internazionale. “Co-produrre oggi più che mai non è soltanto un’esigenza economica, ma il tentativo di provare a creare un cinema europeo”, ha dichiarato. Oltre a collaborare con la Movimento Film di Mario Mazzarotto, dal 2013 ha fondato la Solaria (il nome è quello di sua moglie, “un nome che unisce due cose vitali come sole e aria”). L’abbiamo intervistato per farci raccontare la sua idea di cinema e i nuovi progetti a cui sta lavorando. E che magari proprio a Cannes incontreranno partner produttivi.
Dal 2010 lei è membro degli Atelier du Cinema Européen. Ha iniziato la sua carriera cinematografica al fianco di Gianluca Arcopinto e Mario Mazzarotto, contribuendo tra l’altro a realizzare un film come “Il futuro” di Alicia Scherson, che è stato in concorso al Sundance. Si sente a suo agio nel contesto internazionale di Producers on the Move?
Lo considero un riconoscimento del mio modo di lavorare: mi sento più europeo che italiano, per certi versi. Forse perché agli inizi della mia carriera, non riuscendo a gestire una produzione su scala nazionale, ho capito che avrei dovuto aprirmi alla coproduzione, cosa che ho fatto già nel 2011. Mi sento italiano, ma sul mercato italiano valgo zero.
Qual è la sua idea di cinema?
Conduco una battaglia reazionaria perché non credo si debba aver paura a dire che il cinema è un’industria culturale, e metto l’accento sull’aggettivo “culturale” più che sull’industria. Non è il pubblico che ci deve dettare le regole e si possono realizzare anche opere che qualcuno può considerare noiose.
Tuttavia il pubblico è essenziale alla sopravvivenza di un’arte come il cinema.
Oggi vivo una profonda crisi. Istintivamente amo il cinema che racconta non raccontando, mi piacciono, da spettatore, film complicati a una prima lettura, mi piace stupirmi. Contemporaneamente amo il cinema di genere – sono figlio degli anni ’80 e ’90 – quindi mi sento di riflettere su una linea editoriale più aperta.
A giudicare anche dall’ultima edizione dei David di Donatello, si sta affacciando un nuovo cinema italiano che sa usare il genere e parlare al pubblico senza rinunciare a una cifra stilistica forte. Ovviamente penso a titoli come “Lo chiamavano Jeeg Robot” o “Non essere cattivo”, che ha segnato un riconoscimento, sia pure parziale, di un autore appartato e a lungo misconosciuto come Claudio Caligari.
Sono film che indicano una volontà di transitare su binari che fino a poco tempo fa ci facevano paura. Ho parlato di questo con gli sceneggiatori di Non essere cattivo, un film che amo molto: il vizio capitale di molto cinema italiano è stato allontanarsi dal genere. Eppure il genere è la base di tutti i grandi romanzi dell’Ottocento e persino del cinema di autori come Godard o Truffaut. C’è qualcosa che non va, nel nostro sistema, se un film come Jeeg Robot te lo devi produrre da solo come ha fatto Mainetti.
Dopo aver prodotto “Terra”, sta lavorando anche al nuovo film di Marco De Angelis e Antonio Di Trapani, “White Flowers”.
Sì, è il progetto che porto a Producers on the Move. Ha già un coproduttore giapponese, Kousuke Ono, perché tra l’altro i due registi sono molto legati a quella cultura e hanno sempre lavorato con un attore nipponico come Hal Yamanouchi, e ora sto cercando un terzo partner, forse nordico o russo. Cominceremo a girare tra ottobre e novembre, è la storia di un detective che ha perso la memoria dopo che la sua donna è stata uccisa. Mentre cerca di riacquistare i suoi ricordi per vendicarsi, gli appare il fantasma della donna. E’ un thriller soprannaturale ma alla maniera di questi autori, senza thriller e senza soprannaturale.
Poi produrrà “Niente da perdere” di Wilma Labate.
Sono molto contento di questo progetto, tra l’altro è un film di genere.
E di “Glass Boy” di Samuele Rossi cosa ci dice?
E’ tratto dal romanzo Il bambino di vetro di Fabrizio Silei, pubblicato da Einaudi Ragazzi. E’ la storia di un bimbo affetto da emofilia che non può mai uscire di casa per giocare con i suoi coetanei perché un minimo incidente potrebbe costargli la vita, ma naturalmente vorrebbe vivere come quelli della sua età. Sarà un teen movie, genere che in Italia è poco praticato.
Lei ha prodotto anche diversi documentari.
In Quest’Italia suona il jazz di Marco Guelfi, che ho prodotto con Luce Cinecittà, si segue la nascita di un’orchestra di giovani talenti al Teatro Puccini di Firenze. E’ un film che mi sta a cuore perché racconta la difficoltà di fare dell’arte un lavoro. Ma i giovanissimi hanno più strumenti di quanti ne avessi io alla loro età, non hanno paura di prendere un aereo e andare a vivere a Berlino. Dopo l’anteprima il 10 maggio all’Auditorium Parco della Musica di Roma, il film sarà distribuito in dvd dal Luce. Poi c’è Redemption Song di Cristina Mantis, una storia di migrazioni girata quasi in parallelo con Fuocoammare. Si racconta la soggettiva di Cissoko, un profugo che dalla Guinea, attraverso la Libia, arriva in Italia. Cerca un paradiso che non esiste e quando se ne rende conto, mentre è ancora in attesa del visto, decide di tornare in Africa perché è lì che le cose devono essere sistemate.
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