EMANUELA PIOVANO


Amorfù, come una variazione ironica sul tema dell’amour fou. Follia come erasmiana libertà, amore come voglia di liberazione. Un ex voto a forma di cuore infranto come uno specchio nella locandina…
Sonia Bergamasco Emanuela Piovano, nei grandi spazi ritmati da giardini e padiglioni dell’ex manicomio romano di Santa Maria della Pietà, muove i suoi personaggi: una giovane psichiatra (Sonia Bergamasco), un primario che tenta di riportare il caos all’ordine (Luigi Diberti), un paziente affascinante e inclassificabile (Ignazio Oliva). Curioso che il cinema italiano – da Placido a Faenza – cerchi ispirazione nel delirio. C’è una coincidenza anche con l’intenzione di rivedere la Legge Basaglia? “E’ un dato di attualità, ma il mio film non è un lavoro sul rapporto medico-paziente o sulla riapertura dei manicomi”, dice la cineasta torinese. Tra i suoi riferimenti: Foucault, Follia di Patrick McGrath, Erasmo da Rotterdam, Rivette. Il tutto “concretizzato” nel lavoro sugli attori, molti dei quali fanno parte di una compagnia teatrale, “La voce della luna”, formata da persone che hanno vissuto davvero l’esperienza della malattia mentale. “Da questo punto di vista, è stato come tornare alle atmosfere del mio primo film, Le rose blu, girato con le detenute del carcere di Torino”.
Alla terza settimana di riprese, su un totale di sei, prodotto dalla Kitchen Film con il fondo di garanzia, e distribuito da Key Films, Amorfù sarà in sala il 26 settembre, dopo l’anteprima a EuropaCinema.

Dunque l’amore folle è in questo caso l’amore tra una dottoressa e il suo paziente.
Sì, una giovane dottoressa perde la testa per un paziente e travalica la deontologia. Si mette in un vicolo cieco, ma questo genera un rinnovamento. E poi l’amore è sempre follia quando rompe gli argini e diventa adesione all’altro. Così nel film ci sono ovunque vetri e diaframmi che separano e uniscono i personaggi.

Complici Roberto Faenza ha raccontato un altro caso di transfert amoroso, quello tra Sabina Spielrein e Jung in “Prendimi l’anima”.
Il mio film, più che dal tema psicoanalitico del controtransfert, nasce dall’osservazione diretta. Circa due anni fa, feci delle riprese con la videocamera in una comunità terapeutica e rimasi colpita dallo sguardo assoluto di quelle persone, uno sguardo rivolto contemporaneamente all’interno e verso il cielo, verso l’infinito. Credo che il cinema dovrebbe recuperarlo.

Consideri negativa l’esperienza delle “Complici”, il tuo penultimo film?
Lì volevo decostruire il genere noir, ma è sembrato, a chi ha guardato superficialmente, che fosse un noir fatto male. Ora penso di andare oltre: credo che il cinema italiano debba sfidare la fiction nel senso della qualità. Abbiamo un’eredità altissima, da Rossellini in poi, la strada è continuare una ricerca formale di quel tipo, senza scimmiottare gli americani. E’ come con il vino: o fai il Tavernello o ti specializzi in un prodotto superiore.

Oltre a Rossellini, c’è anche qualche contemporaneo a indicare la strada?
Sicuramente L’ora di religione: finalmente un modello! Cinema di altissima sacralità che può competere con un film americano: io l’avrei mandato all’Oscar. Benigni e Moretti, invece, con tutta la loro genialità, non sono registi, sono personaggi.

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25 Novembre 2002

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