Buongiorno Eleonora Giorgi, sabato 21 ottobre compie 70 anni. Che compleanno sarà?
In realtà pensavo già da qualche anno a questa data. I simboli sono importanti. Alla fine però è arrivato questo compleanno pesante senza che me ne rendessi conto. È una sorpresa che mi rallegra e che mi fa incrociare le dita perché sto bene di salute.
Tempo di bilanci?
Ho una forte base affettiva con la mia microfamiglia, io e due figli di cui mi sono molto occupata. E ora anche un nipotino di cui sono pazza. Poi c’è un’incredibile, enorme relazione che si è creata con il pubblico che mi gratifica e mi fa sentire di essere amata e sempre all’altezza. Resto stupefatta perché sono trascorsi anche 50 anni dal mio esordio.
Ricordiamolo.
So essere anche più precisa, 50 anni e tre mesi. Il contesto era quello di mio padre compagno di Giulia Mafai, costumista e scenografa. Un mondo molto intellettuale in cui mi sono ritrovata dai 16 anni in poi, lei faceva cinema e teatro e mi spinse a fare delle foto acqua e sapone. Con un agente mi mandarono a Milano a fare tre piccoli servizi, le calze Omsa, gli occhiali Safilo… Di colpo questa mia agenzia mi dice di incontrare Tonino Cervi che sta cercando la protagonista del suo film da produttore.
Titolo?
Storia di una monaca di clausura. Io divento subito una figura lolitesca che è una condizione per me paradossale perché stavo da cinque con il mio primo e unico ragazzo. Poi giro Appassionata, sempre prodotto da Cervi con Ornella Muti. Ho 19 anni e, nell’arco di un anno, faccio cinque film.
Rinnega qualcosa di quelle prime scelte?
Non saprei, ripercorriamo insieme gli altri titoli. Dopo quei due film giro Il bacio che ho rivisto per caso in tv di notte, sono rimasta impressionata perché forse allora neanche lo vidi. Un film viscontiano con la regia di Mario Lanfanchi, un feuilleton con i costumi di Tirelli. Segue Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno di Luciano Salce e poi parto per la Sicilia per il film di Salvatore Samperi che però non poteva firmare perché era legato a un altro produttore. Così La sbandata lo firma il suo aiuto regista (Alfredo Malfatti, ndr), io non ho ancora 21 anni e sono molto rock, alla Easy Rider, mio padre mezzo inglese, mia madre ungherese, molto nordici, il Sud era molto lontano dalla mia familiarità. In Sicilia poi indosso la mia prima parrucca nera e recito accanto a Modugno sinonimo di grandezza italiana nel mondo. Ho avuto grandi fortune, perché dovrei rinnegarle?
A proposito di numeri, nell’arco di una decina di anni ha girato quasi 30 film. Come potremmo far capire a un giovane di oggi l’immensa popolarità che aveva ottenuto?
In effetti oggi non c’è più quel tipo di popolarità nel cinema che in 50 anni si è modificato strutturalmente. L’impatto profondo in quella società è stato traferito ad altri ambiti, tra musica e social. Io e, ricordiamolo, Ornella Muti, avevamo raggiunto vette paragonabili oggi, non so, azzardo, a Chiara Ferragni. Forse un po’ Emma Marrone. La verità è che oggi non abbiamo dive in embrione, noi eravamo delle ragazzine ma con una posizione in una struttura di mercato.
Non dimentichiamo che eravate donne, è stato più facile o più difficile?
Facilmente assolutamente no. Nel mio quarto film, in quel primo anno rutilante, Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno tratto da Azcona e Berlanga, diretto da Salce con Paolo Villaggio appena prima che girassero il primo Fantozzi, ho un ruolo di seducente sensualità erotica, con bellissime, ma poco indugianti immagini di nudo. Io così seria con una educazione severissima di mia madre. Poi per fortuna arrivò la recensione positiva di Pietro Bianchi.
C’è anche Cinecittà nella sua vita professionale?
Direi che c’è quasi un legame di sangue. Subito dopo La sbandata e Conviene far bene l’amore di Pasquale Festa Campanile con Gigi Proietti e Christian De Sica, Alberto Lattuada mi propone Cuore di cane. Di colpo mi ritrovo convocata a Cinecittà che, nella primavera del ’75, era un luogo abbandonato da Dio, in mano a vertenze sindacali, i cancelli chiusi. Io appena ventenne arrivo con le cuffie in testa e il mangianastri con i Pink Floyd e vedo tutto rotto, serrande abbassate, bar chiuso sempre per sciopero, un unico telefono appeso al muro rotto. Il mio camerino era al primo piano, il divano un pagliericcio impolverato. Insomma un luogo di consegna nemmeno militare. Io arrivavo da Roma Nord, un viaggio allucinante da fare due volte al giorno. Tanto che propongo alla produzione di rimanere a dormire lì se mi pulivano i camerini. Loro mi guardano sconvolti. Certo poi quando passeggiavo e vedevo le scenografie di Rex di Fellini tutto cambiava. Passano 46 anni e vado a fare Il Grande Fatello in un enorme studio di cartapesta costruito proprio dentro Cinecittà. A me m’è presa un’euforia…
Quei primi anni non sono stati però tutte rose e fiori. Lei fa parte di una generazione che si è anche persa.
Noi siamo state le prime donne che abbiamo conquistato il diritto di uscire di casa e andare a lavorare. Oggi si ignora quanto abbiamo squarciato e quanto eravamo moderne negli anni ’70 con i nostri vestiti. Poi certo avevo amici dei Parioli che sono entrati o nelle Br o nell’estrema destra o che si facevano. Difficile far capire oggi che cosa era Roma durante l’inverno del ’76 e del ’77, tutti i giorni bomber, scontri… Poi arriva La febbre del sabato sera e si aprono le discoteche.
Anche lei ha avuto problemi con la droga.
Nel mio caso la droga arriva perché ero diventata molto famosa e avevo perso il mio fidanzato storico, Alessandro Momo, che era caduto con la mia moto ed era morto. Poi ci fu il cambio religioso di mia madre. Io, Lolita, cado nelle braccia dei miei coetanei che sono malati. Poi però risorgo.
E recita con gli attori più popolari d’Italia, Celentano, Pozzetto e Verdone.
Il più leggendario che mi faceva sempre sognare, per esempio quando ci siamo trovati a Marrakech per Oltre la porta di Liliana Cavani, era Marcello Mastroianni. Quello che mi ha affascinata di più è Celentano che mi divertiva un mondo anche artisticamente. Lui lento e io tutta fibrillante. Una caratteristica che si ripete in tutte le mie grandi commedie, con loro sempre morbidi e lenti. Non è facile far ridere da donna piacente, forse solo Monica Vitti c’è riuscita. Poi certo sono legatissima a Carlo Verdone che con Borotalco ha anticipato i tempi. Oggi i ragazzi sanno le battute, è un film che è passato attraverso le generazioni con uno dei personaggi maschili più teneri. Poi c’è Nadia che regala a me e al pubblico un personaggio femminile completo, come di rado capita nel cinema italiano, che vive di vita propria e che rappresenta la ragazza ‘nuova’ di cui ti parlavo prima, una donna che dice: “Anche io ho diritto a una mia dimensione».
Poi l’hanno chiamata i grandi autori, ha citato Lattuada e Cavani ma penso anche a Montaldo, Brusati…
E Nelo Risi. Penso che nel cinema d’autore ispirassi l’immagine della biondina tranquilla con un’aria molto botticelliana. Tanto che mi hanno voluta struccata. È stata l’occasione per lavorare con dei grandissimi anche se per me i registi erano tutti uguali perché li vedevo come il preside a scuola. E io quindi mi presentavo diligente, estremamente duttile e propositiva, capace di fare un passo indietro con tutti i registi.
Lei è stata forse la prima attrice che ha esordito anche come regista, una tendenza oggi molto in voga. Però anche lì fa uno dei suoi passi indietro rinunciando a essere la protagonista di Uomini & donne, amori & bugie del 2003
È vero, regalo il ruolo a Ornella Muti consapevole che era un periodo in cui ero molto sciupata e non ero adatta a fare, nel primo tempo, una venticinquenne. E poi mi sembrava troppa roba dirigere e interpretare.
E arriviamo dunque a oggi, anzi a dopodomani. Progetti?
Sì, ogni dieci anni circa scrivo un film. Vediamo come andrà. Poi c’è il pubblico che mi segue sempre, quando vado in tv mi scrivono in tanti. C’è un potenziale su cui vorrei lavorare. Quindi, anche pensando a quello che succede nel mondo, cerco di tenere duro, ringrazio per quello che ho e credo fermamente nei miei progetti perché, a 70 anni, urlo ancora: «Ho diritto alla mia dimensione!».
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