Due adolescenti e un aborto per Eliza Hittman

Come in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu anche in Never Rarely Sometimes Always di Eliza Hittman, in concorso alla Berlinale, ci sono due ragazze e un aborto


BERLINO – Come in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu anche in Never Rarely Sometimes Always di Eliza Hittman, in concorso alla Berlinale, ci sono due ragazze e un aborto (tema su cui a inizio festival si è espresso il presidente della giuria Jeremy Irons). Solo che mentre lì lo sfondo era la Romania comunista con tutti i pericoli e le minacce di un’interruzione clandestina, qui siamo in un’America contemporanea con una famiglia distratta, una piccola comunità un po’ bigotta e due adolescenti allo sbaraglio che dalla provincia arrivano a New York dove è possibile essere sottoposte all’intervento senza il consenso dei genitori.

Autumn (Sidney Flanigan), liceale della Pennsylvania un po’ complessata che lavora anche come cassiera in un supermercato, è alla 18esima settimana di gravidanza e la ginecologa locale cerca di convincerla a portarla avanti anche facendole vedere un video antiabortista. Allora decide di partire per New York, accompagnata dalla cugina Skylar (Talia Ryder). Per le due 17enni è un viaggio complicato, un po’ perché non hanno soldi, un po’ perché l’aborto risulta meno semplice del previsto, tanto che dovranno passare due notti allo sbando nella grande metropoli. Non succede niente di veramente terribile ma il film è preciso nel comunicare il senso di solitudine e alienazione, specie nell’incontro con un ragazzo più grande e di buona famiglia che sembra attratto da Skylar ma finisce per sfruttarne le difficoltà. 

Il titolo dell’opera terza di una regista con curriculum di studi d’arte e fedele frequentatrice del Sundance – e si vede – ricalca le risposte a un questionario sui rapporti sessuali a cui Autumn deve rispondere prima di accedere all’intervento di interruzione: un questionario arido ma in fondo l’unico momento in cui è costretta ad aprirsi sebbene con un’estranea – l’operatrice di un consultorio che risulta la persona più empatica in scena – sulle sue esperienze non proprio felici, probabilmente di abuso: del resto nella prima scena l’abbiamo vista derisa proprio dal compagno di classe che presumibilmente è il padre del bambino non voluto. 

“Ho letto una storia simile di una donna che nel 2012 era morta a Galway dopo che le era stato negato l’aborto. E così mi sono iniziata a chiedere cosa si può fare in questi casi – spiega la regista – Fino a che punto avrebbe dovuto viaggiare questa ragazza per salvare la sua vita? Ho iniziato poi a leggere dei viaggi che tante, troppe donne, intraprendono in altri paesi per abortire e anche, ovviamente, quelli che si fanno in America, dalle aree rurali alle aree urbane. Vale a dire ho scoperto il turismo dell’aborto, un termine orribile che racconta una cosa altrettanto orribile”.

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25 Febbraio 2020

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