Cechov e il suo Zio Vanja, un testo comprensibile a qualsiasi latitudine, in qualsiasi lingua, persino quella dei segni. Perché parla di sentimenti universali e sempre attuali. Di amore ma anche di come affrontiamo il passare del tempo e l’assurdità dell’esistenza. Sembra essere questo il compito che Ryūsuke Hamaguchi si assume, attraverso l’adattamento di un racconto ‘cechoviano’ di Haruki Murakami contenuto nella raccolta Uomini senza donne (2014), in Drive my car, tre ore di immersione lucida e dolente nel teatro e nella coscienza, nel senso di colpa e nella possibilità della redenzione.
Il film, vincitore del Premio per la sceneggiatura all’ultimo Festival di Cannes (e anche del Premio Fipresci e di quello della giuria ecumenica), arriva ora in sala dal 23 settembre con Tucker. E ha la singolarità di iniziare a 40 minuti dal principio, quando scopriamo insieme al protagonista Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima), che sua moglie è morta all’improvviso per un’emorragia cerebrale. La coppia, come abbiamo visto nel prologo, è legatissima, anche attraverso il testo di Cechov, che lei legge per lui in una audiocassetta che accompagnerà il personaggio anche dopo, attraverso un lungo viaggio dentro se stesso e per comprendere la complessa natura di quel rapporto a due. Moglie e marito si amano, ma hanno in comune un’esperienza dolorosa, la morte della figlioletta di 4 anni. Inoltre lei – sceneggiatrice per un canale televisivo e donna dalla florida immaginazione – lo tradisce regolarmente con giovani attori, lui ne è consapevole ma rimane in silenzio, fino a quella tragica sera.
Due anni dopo Kafuku viene chiamato a mettere in scena proprio Zio Vanja dal festival ad Hiroshima con una troupe di attori di diversa provenienza e di lingue diverse, dal cinese al giapponese al filippino al coreano alla lingua dei segni. Ma alle prove della pièce – che viene letta e riletta e analizzata – si affiancano gli incontri tra il protagonista e la giovane Misaki (Tôko Miura) che è stata incaricata di fargli da autista durante la permanenza a Hiroshima: guiderà appunto la sua auto, una Saab 900 Turbo Coupè di cui lui è geloso. Anche Misaki, come tutti in questo racconto, nasconde un segreto che sarà via via rivelato. La mente corre al magistrale Vanya sulla 42esima strada di Louis Malle (1994): e chissà se il regista giapponese conosce quella versione, che aveva la sceneggiatura nientemeno che di David Mamet.
“Un mio grande tema – spiega Hamaguchi, autore di titoli amati dai festival come Asako I & II o Il gioco del destino e della fantasia – riguarda il modo in cui la comunicazione passa non solo attraverso le parole. Penso invece a come posso usare efficacemente i silenzi nei miei film, perché per me il silenzio non significa necessariamente che due persone non stiano comunicando o non abbiano alcuna relazione”.
Sulla scelta del racconto di Murakami, spiega: “In questo film, come nel racconto originale, ci sono le cose che conosco e amo di più: il teatro di prosa, la recitazione e le belle automobili. Mi piaceva l’idea di ambientare le scene chiave all’interno dell’abitacolo di una macchina, è un luogo perfetto per una conversazione intima in cui rivelare i segreti dei personaggi. C’è un’evoluzione nel rapporto tra i personaggi nella macchina: all’inizio c’è distacco, loro sono seduti lontani e non si guardano, poi finalmente si guardano in faccia, infine, il protagonista si siede davanti, accanto all’autista, completando il processo”. E del resto, da Kiarostami in giù, il cinema ha scelto spesso l’abitacolo dell’automobile come set ideale.
Per spiegare, infine, il lungo prologo che introduce alla storia, afferma: “In un romanzo sei in grado di calarti comodamente negli schemi mentali interni delle persone, ma è più difficile esprimere lo stesso genere di cose nel film, specialmente quando il personaggio è timido o parla raramente. Avevo così davvero bisogno di mostrare che il protagonista porta dentro di sé un’enorme tristezza. Avevo bisogno che il pubblico capisse davvero i suoi sentimenti e le sue reazioni”.
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