ROMA – Il documentario è osservato speciale nel sempre movimentato panorama dell’audiovisivo. Grazie all’arrivo degli streamer, che hanno articolato il genere sotto nuove forme, come quella seriale, un nuovo pubblico si è avvicinato al racconto del reale. Al contempo, il valore sperimentale del documentario non si ferma e richiede sempre più di essere sostenuto per mantenere fede alla propria missione di valorizzazione dell’identità nazionale. Un compito, ci racconta il presidente di Doc/It al Mia 2023, che non può prescindere dalla partecipazione del servizio pubblico. Proprio in questi giorni è attesa l’approvazione dei Contratti di Servizio Rai 23-28, di cui si è ampiamente discusso in un panel ospitato durante il Mercato dell’Audiovisivo al Cinema Barberini a Roma, anche dalla prospettiva del genere documentario. “È il genere che dialoga in maniera viva con tutte le complessità del tempo che stiamo vivendo”, ci spiega Virga elencando quali strumenti e obiettivi l’Associazione Documentaristi italiani si aspetta dalle nuove politiche del MiC. “In questo momento noi stiamo parlando con tutti”.
Al panel organizzato da DOC/ITA qui al MIA si è parlato delle nuove politiche del MiC, anche per quanto riguarda la creazione di sotto quote per il documentario. Quale impatto attendete da questi nuovi strumenti?
Diciamo che è un momento molto particolare, sia per ristrutturazioni di mercato, sia per la crisi di alcuni player che negli anni hanno sostenuto il documentario in maniera molto forte. Per esempio Sky, o la situazione di Rai Cinema, che ha il budget bloccato, ma in generale per il ripensamento del sostegno pubblico al momento. Un momento in cui è importante prendere scelte necessarie per temperare aspetti distorsivi, assetti di mercato, ma anche regolamenti. Perché il tax credit, che è uno strumento straordinario, ha prodotto anche una forte polarizzazione di investimento o di risorse messe a disposizione soprattutto della filiera industriale. Il documentario ha pesato solo il 6% nel 2022, e parliamo comunque di cifre importanti. Quello che noi abbiamo voluto evidenziare con il panel sul Contratto di Servizio è che, dalla prospettiva del documentario, questi vertici Rai non hanno dato la giusta attenzione.
Ha raccontato come nel contratto di Servizio Rai 23-28, confrontato con quello del 18-23, si nota un arretramento per quanto riguarda al documentario: come se lo spiega e quali conseguenze ha?
Certo. È una disattenzione che noi vediamo, ma il contratto di servizio è un quadro. Poi inizia l’attività che le associazioni fanno per sensibilizzare i vertici. Noi non diciamo che la Rai sia completamente disattenta, nel 2020 è stata creata Rai Documentari che è una struttura nuova e funzionante, ma non possiamo non notare che non è dotata delle risorse, sia finanziarie sia umane, necessarie a funzionare come dovrebbe. Io ieri nel panel ricordavo che il documentario è il patrimonio culturale vivente dell’identità nazionale e quindi è chiaro che pur avendo partner di mercato anche importanti, il servizio pubblico è riferimento naturale e quindi ci vuole un’attenzione di tipo diverso rispetto a quanto si sta discutendo, sui nuovi decreti tax credit e in generale sul riordino. Sul tagliando alla legge cinema, noi, pur non avendo adesso a disposizione una bozza definitiva, abbiamo l’impressione che se da un lato c’è un interesse che ci viene comunicato in maniera molto esplicita dal Sottosegretario e dalla dirigenza della DGCA, dall’altro vediamo anche proposte che non sempre sono migliorative per il nostro settore.
Ad esempio?
Per esempio quella di istituire soglie d’ingresso per poter beneficiare del credito d’imposta, che è un concetto che noi non rifiutiamo a priori, ma bisogna vedere a che altezze sono posizionate. Il documentario è fatto soprattutto da microimprese. In questi anni è vero che le grandi società hanno aperto anche dipartimenti per documentari, proprio perché si è sviluppata una nuova attenzione da parte del pubblico e dell’industria. Ma in linea di massima, l’ossatura produttiva è rappresentata da microimprese. Si possono aiutare queste imprese a crescere, molte hanno dimostrato di stare sul mercato, di avere opere che hanno conquistato i premi più importanti del cinema mondiale, non solo quelli di settore. Il documentario, oltretutto, è il genere che adesso in qualche modo dialoga in maniera anche più viva con tutte le complessità del tempo che stiamo vivendo. Basta vedere i premi che sono stati dati tra Berlino, Venezia e Cannes.
Qual è dunque la richiesta che avanzate come Associazione?
Quello che adesso è anche importante è riuscire a far atterrare nel nuovo Tusmar (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, ndr) gli obblighi di investimento con sotto quote per il documentario, che per esempio sono previste per l’animazione, che è un genere inquadrato normativamente, quindi anche nel sistema degli aiuti di Stato, ma su un mercato di riferimento molto preciso in questi anni è veramente sbocciato. Quindi noi chiediamo che ci sia un inserimento nel Tusmar di sotto quote per il documentario con obblighi di investimento precisi. Questo ci aiuterà anche nell’opera di sensibilizzazione ed è qualcosa di indispensabile. Rai Documentari ha fatto quelli che chiamerei esperimenti e mi sembra che siano anche stati premiati dall’interesse del pubblico. Produrre una serie, formato oggi in voga, richiede una struttura economica molto più complessa. Indubbiamente questo è un formato, un settore, un approccio, su cui la Rai ha molto da crescere. Noi sappiamo che c’è un problema di risorse, ma la loro gestione è anche una questione politica. A monte noi sappiamo che c’è questo problema, su cui si sono espressi anche APA e Anica: quella quota di canone che non viene data alla Rai e che pesa per circa ottanta milioni annui negli ultimi tre anni, chiediamo che venga messo a disposizione e investito in produzioni
Parliamo del rapporto con gli interlocutori principali per il documentario, Mic, Rai e Cinecittà. Come funziona ora è quali sono le prospettive per un sistema integrato anche a livello europeo
Il sistema innanzitutto deve essere un sistema nazionale, nel senso che le risorse, anche se sappiamo che andranno calando in questi anni, comunque ci sono. Quello che noi ravvisiamo è la difficoltà. E da questo punto di vista la difficoltà maggiore noi la percepiamo nella Rai: difficoltà di essere consapevoli che il documentario, in generale l’industria indipendente italiana, ha bisogno realmente che le parti del sistema pubblico, quindi il Ministero, la Rai e Cinecittà, si allineino anche in termini di policy. Faccio sempre l’esempio dei contratti di coproduzione per i documentari di Rai TV, che non hanno gli standard europei e non hanno neanche quindi gli standard che vengono richiesti per poter usufruire dei fondi europei. È importante anche che sulla politica dei patrimoni archivistici, la Rai e Cinecittà adottino delle policy similari e che la Rai abbia, rispetto a Rai Com, la missione diffondere il più possibile gli archivi Rai, naturalmente in un’ottica di mercato, ma senza dimenticare la funzione culturale e sociale. Rai Com invece è stata spesso più attenta a capitalizzare piuttosto che a diffondere. Sul sistema europeo, vediamo che il ministero promuove le coproduzioni e lo ha dimostrato con la creazione anche di fondi bilaterali, alcuni dei quali molto importanti ed efficaci. La produzione di identità per paesi che sono fortemente centrati sul servizio pubblico non può che avvenire in uno spazio europeo. Posso dire che noi abbiamo un’interlocuzione continua con il Ministero. Ora bisogna però confrontarsi su quello che atterrerà sul decreto. Per quanto riguarda la Rai posso dire che le associazioni e Doc/It in particolare inizia adesso il dialogo con questa nuova dirigenza.
E con Cinecittà?
Cinecittà è un discorso più complesso, nel senso che la stessa struttura di documentari è dentro un corpus molto più grande che ha altre priorità. Con Cinecittà Istituto Luce noi abbiamo un dialogo continuo e molto soddisfacente, ma non possiamo neanche far finta che abbiano le risorse adeguate. Cioè, l’Istituto Luce ha per investire sul documentario un milione e mezzo all’anno, che è assolutamente sotto dimensionate alla funzione e alle potenzialità anche nel mercato. Però in questo momento noi stiamo parlando con tutti.
Il documentario sta vivendo un ritrovato rapporto con il pubblico, anche grazie ai nuovi formati e fruizioni oggi disponibili. Le docuserie funzionano molto e in generale è cresciuti l’interesse per le storie tratte dal reale…
Hanno contribuito a ravvivare nel pubblico italiano l’attenzione per il documentario. E poi, come ogni nuova proposta di fruizione, incide anche sui formati. Per esempio hanno portato la serialità documentaria. Noi riconosciamo il fatto di aver contribuito a creare un mercato molto più maturo, un’offerta creativa più ampia. Ma vediamo anche dei fattori che noi giudichiamo in maniera meno favorevole, per esempio una forte standardizzazione dei linguaggi. Tuttavia è vero che il documentario di dieci anni fa non è quello di oggi. Io penso che, per esempio, Rai Play abbia la sfida di portare proposte documentarie con nuovi formati seriali per il pubblico giovane. Sappiamo che la televisione pubblica in questi anni ha perso molto il contatto con le nuove generazioni e con la parte culturalmente più avvertita del pubblico, che si è rivolta prima alle paytv e poi agli streamer. C’è poi una dimensione di documentari industriale che ha trovato nella televisione lineare il suo mezzo. E contemporaneamente c’è tutta la nuova proposta seriale. Doc/It sa perfettamente che rivolgendosi alla Rai parla a un corpo estremamente complesso. Dal nostro punto di vista gli imperativi della Rai sono, come dire, solo questione di tempo. La trasformazione in una media Company è inevitabile. Noi stiamo cercando di invertire anche la narrazione che fino a poco tempo fa vedeva il documentario come un genere fondamentalmente come solo educational, che è poi dove la Rai ha mantenuto un presidio. È ovvio che la Rai, attraverso il canale Rai Storia, ha cercato un presidio col documentario storico. Ma tutto questo, alla luce delle trasformazioni attuali e anche della generazione di autori e autrici, produttori, produttrici delle strutture di mercato, non è più sufficiente. È questo che noi diciamo ai vertici Rai.
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