Il digitale nel cinema italiano è forse il primo libro italiano che affronti sistematicamente dal punto di vista dell’estetica, della produzione e del linguaggio la nuova tecnologia. Pubblicato dalla “Lindau” (144 pp., 14,80 €), è in libreria proprio da questi giorni. Si tratta del risultato dell’incontro di due distinti momenti di ricerca: la tesi di laurea dell’autrice, che ha vinto nel 2001 il premio CineCinemas per la migliore tesi sulle tecnologie digitali applicate al cinema, e il documentario dallo stesso titolo realizzato per Raisat Cinema in collaborazione con Federico Greco.
Le riflessioni sul come e perché (ma soprattutto se) il digitale starebbe modificando il linguaggio oltre che la tecnica cinematografica, prendono corpo su una fitta rete di testimonianze dirette e inedite di circa 25 tra registi, direttori della fotografia, produttori, tecnici e accademici. Tra questi Nanni Moretti (“Non bisogna fare demagogia sul fatto ‘ogni persona una cinepresa’. Anche ogni persona ha una macchina da scrivere, una penna, un computer… poi essere scrittori è un’altra cosa”); Piergiorgio Bellocchio (“La pellicola continuerà ad esistere, ma diventerà un mezzo per cui è una scelta precisa fare un film in pellicola; non sarà più l’ovvio, non sarà più il quotidiano”); Gianluca Rizzo della Proxima (“La maggior parte dei film oggi realizzati in Italia – circa l’80% – prevede al suo interno un intervento digitale perché i registi, soprattutto quelli giovani, cominciano a capire dove si può arrivare”).
Ma anche Giuseppe Bertolucci, Luca Bigazzi, David Bush, Emanuela Giordano, Emidio Greco, Alex Infascelli, Renzo Martinelli, Maurizio Nichetti…
Una vera e propria “cinematografia digitale”, è la conclusione cui sembra giungere Michela Greco, in Italia non esiste ancora. Esistono, semmai, dei casi, delle tecnologie e delle strutture – produttive e commerciali – ancora in nuce, che però costituiscono una premessa interessante per le evoluzioni future.
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