Ogni anno CinecittàNews incontra le figure professionali che hanno lavorato dietro le quinte del film designato dall’Italia alla corsa per l’Oscar al Miglior Film Internazionale
Come è nato il rapporto con Maura Delpero e poi il progetto di Vermiglio? Avevate già collaborato?
Il punto di raccordo tra me e Maura (Delpero, ndr) è stato la Cineteca di Bologna. Appena laureata, agli inizi degli anni 2000, avevo pochissime idee sul futuro, ma una grandissima passione per il cinema. E Bologna in quel momento era la città dove stare: sono stata molto fortunata, perché ho bussato alle porte della Cineteca, sono entrata come stagista e poi ci sono rimasta undici anni. È lì dentro che ho avuto tutta la mia formazione professionale: tra le varie cose di cui mi sono occupata c’era anche l’organizzazione di un festival, ‘Visioni italiane’, molto longevo e partecipato, che quest’anno è arrivato alla sua trentesima edizione, dedicato ai corti e ai documentari. Maura ha iniziato con i documentari, e quindi puntualmente presentava i suoi in quella selezione, che di solito vincevano anche dei premi: già dai suoi primi lavori, infatti, si vedeva uno sguardo di autrice molto interessante, molto profondo e poetico. Quindi io ho iniziato a conoscerla da spettatrice, con i suoi primi lavori. Dopodiché ci siamo sempre tenute in contatto: io ho fatto il mio percorso, lei il suo, aggiornandoci man mano nel corso degli anni… Dopo lei ha esordito col suo primo film di finzione, Maternal, che andò a Locarno e vinse quattro premi, ed è stato distribuito in più di 40 Paesi in tutto il mondo: in Francia ottenne anche il Biglietto d’Oro come film più visto nell’arco di una settimana… A quel punto, quattro o cinque anni fa, lei mi chiamò e mi disse che stava cercando un produttore, mi chiese cosa stessi facendo. Insomma, così, parlando, è venuto fuori che avremmo potuto collaborare, aprendo una società di produzione e producendo per primo il suo prossimo film. Dopodiché, proprio perché il lavoro del produttore è molto difficile e solitario, abbiamo deciso di provare a coinvolgere altre persone: Leonardo Guerra Seràgnoli, anche lui regista e autore, e poi il marito di Maura, Santiago Fondevila Sancet. A quel punto siamo partiti, e ci siamo subito dedicati allo sviluppo di Vermiglio.
La sceneggiatura, il passaggio dal Torino film Lab e dagli altri laboratori di scrittura: quanto possono essere importanti secondo lei, se lo sono?
Fin dall’inizio è stato chiaro che ci sarebbe voluto un lavoro molto lungo, complesso e accurato sulla scrittura della sceneggiatura. Maura è un’autrice estremamente precisa e metodica, tra l’altro è un’autrice che scrive da sola, ma insieme abbiamo capito che sarebbero stati un valore aggiunto enorme i laboratori di scrittura. A quel punto abbiamo partecipato e siamo stati selezionati al Torino Film Lab, dove poi abbiamo vinto un premio, l’ArteKino International Award. Ma non ci siamo fermati, perché poi Maura ha partecipato anche al Nipkov di Berlino e ai workshop dell’MFI in Grecia. E questo le ha permesso di aprire la sceneggiatura a degli occhi esterni, di arricchirla di tantissimi suggerimenti, sguardi di altri registi e autori… Questi laboratori sono assolutamente importanti, perché si lavora su tutti i progetti: ognuno lavora insieme agli altri autori sul suo, ma poi anche su quelli degli altri… Affiancati da tutor e script editor che ti aiutano a costruire tutta l’impalcatura della tua storia. Devo dire che con Maura condividiamo questo sguardo aperto sul mondo e sull’arricchimento che possono dare sia le coproduzioni che questi laboratori di sviluppo, dove veramente riesci a capire se la tua storia, dal personale, riesce a passare all’universale: a parlare a ciascuno di noi. Benché poi la storia di Vermiglio è la storia di Maura e della sua famiglia, nata da un sogno, come lei ricorda sempre: lei ha sognato suo padre – che era mancato pochi mesi prima – quando era piccolo, in una situazione molto serena. Suo padre ragazzino, quindi (Pietrìn), in questa grande famiglia sulle montagne del Trentino… E il nonno di Maura faceva il maestro: questa figura di uomo ancora legato molto alle tradizioni, al patriarcato, però anche con una sensibilità verso la bellezza, la cultura, la musica. Quegli uomini che in tempo di guerra si trovavano a dover supplire alla mancanza di uomini, perché erano tutti al fronte. E quindi a dover fare da padri putativi ai ragazzi del Paese, quasi un “maestro-sindaco”.
Quanto è costato in totale produrre Vermiglio? E quando è nata l’idea di allargarsi alle coproduzioni?
In totale la produzione è costata quattro milioni e trecentomila euro. Con la nostra Cinedora al 70%, la Francia con Charades al 20% e il Belgio con Versus al 10%. L’idea di coprodurre l’abbiamo avuta da sempre, io vengo dalle coproduzioni: dopo la Cineteca ho lavorato per cinque anni a Tempesta, la casa di produzione di Carlo Cresto-Dina, dove ho capito che l’impianto co-produttivo con altri Paesi era quello che mi interessava. Che ero poco attratta a fare film solo per l’Italia, e che le coproduzioni erano un bacino molto fertile di idee, talenti e visioni diverse. Oltre ad aiutare a rendere il tuo piano finanziario molto più solido e strutturato.
Avevate già collaborato con la francese Charades e la belga Versus?
No, nelle mie coproduzioni precedenti avevo lavorato con la Svizzera, la Francia e la Germania, ma con altre società, non con queste due. La collaborazione con Charades è venuta molto naturalmente, perché erano stati sales agent del primo film di Maura, Maternal. Quindi tornando da loro per coinvolgerli nuovamente in quel ruolo, ma sapendo che erano interessati anche alle produzioni, gli ho proposto di leggere la sceneggiatura di Maura, che già in quel momento era davvero molto molto bella, un romanzo. Dunque è stato anche molto facile convincerli.
Dal punto di vista strettamente operativo come vi siete trovate con Maura Delpero?
Anzitutto c’è da dire che Maura è una persona preparatissima. Dopo la sceneggiatura, anche la fase dello sviluppo è stata anch’essa molto lunga e approfondita, perché si trattava di ricreare un mondo. È chiaro che il cinema è un artificio, ma è un artificio che devi rendere il più verosimile possibile. Noi sapevamo che l’obiettivo che dovevamo darci era fare in modo che lo spettatore potesse sentirsi davvero lì con i personaggi e vivere quel che stavano vivendo loro. Quel freddo, quell’incombere delle montagne, la natura così presente e a volte anche così spaventosa. Il profumo del latte caldo la mattina, la neve… E quindi questo ha portato a una ricerca approfonditissima sia dei luoghi – con almeno un anno di sopralluoghi – che dei personaggi. E quello che a Maura noi abbiamo dato di più prezioso, come produttori, è stato proprio il tempo. Ciò che era necessario per portare avanti questa ricerca nel modo più minuzioso possibile. I luoghi sono i luoghi di Maura, lei è andata su per tantissimo tempo: prima ha iniziato a parlare con le sue zie, che ci sono ancora. Ed è proprio vero, i ricordi più remoti sono quelli che negli anziani sono più presenti: quelli che loro hanno restituito a Maura, infatti, erano estremamente precisi, vivi, e lei è partita da lì, per poi allargare la ricerca a tutti gli anziani non solo della Val di Sole, ma delle valli intorno… andando nelle osterie, bevendo grappa alle dieci del mattino, chiacchierando con loro. Perché non solo aveva bisogno di trovare quelle facce e quei racconti, ma anche di capire quei gesti. Perché una persona della montagna si muove diversamente da chi è nato, ad esempio, al mare. E questo era fondamentale, e ha portato poi a formare un cast di quasi tutti attori non professionisti. Praticamente tutti i bimbi sono stati presi tra Vermiglio, il paese della famiglia di Maura, e i paesi vicini. Non abbiamo mai pensato di aprire un casting a Roma, per dire. Sarebbe stato molto più complicato insegnare a bambini romani il dialetto e quelle movenze…
C’è un attore o un’attrice in particolare, tra i giovanissimi, con cui si spiega meglio quel che mi sta raccontando?
C’è una cosa che racconta sempre Maura, che mi piace sempre riprendere: ad esempio, per il ruolo di Ada, lei è andata a cercare all’Istituto Agrario, proprio perché normalmente è frequentato da ragazzini che progettano di lavorare con la terra, a contatto con gli animali e la natura, eccetera. E lei come prima domanda chiedeva loro ‘qual è il momento più felice della vostra vita fino ad ora’. E tutti più o meno rispondevano cose come ‘quella volta che il bambino dell’altra classe mi ha scritto un biglietto’, oppure ‘quando sono andata alle giostre’… Invece arrivò Rachele (Ada Potrich), che disse ‘il momento più felice della mia vita è stato quando una delle mie galline mi è corsa incontro perché mi ha riconosciuta’. E da lì abbiamo capito che Ada portava in sé una verità e una ricchezza e un mondo che difficilmente avremmo ritrovato in qualcun altro. La scena di Ada in cui tiene le galline in braccio, che sembra banalissima, è stata possibile solo grazie a lei.
Un’opera seconda, un film piccolo in un paese piccolo, a sua volta con una vostra piccola casa di produzione, creata ad hoc… Insomma un progetto che è un po’ come Davide che affronta il Golia dell’Academy. Ma voi ci speravate di partecipare a questa corsa?
No, il pensiero dell’Oscar è sempre stato solo ‘laterale’: ce lo hai lì, ma è una cosa talmente enorme che non ci speri, non puoi permetterti di sperarci. L’unica cosa che posso dire è che ho avuto sempre la consapevolezza che il risultato era un bellissimo film. Non ho mai avuto dubbi sul talento di Maura e sulla qualità dell’opera. Poi tra questo e il successo che sta ottenendo il film, ci passa un’autostrada… sono due cose che non sempre corrispondono. Però in qualche modo c’è stata una congiuntura di cose molto favorevoli che hanno fatto sì che se hai un buon prodotto e lo comunichi anche nel modo giusto… allora il pubblico risponde. A chi dice che ‘la sala è morta’ io dico che non è vero: io sto portando avanti una grande battaglia contro questo pessimismo, perché la sala è molto viva. Il rito collettivo di guardare il film in sala è ancora sentito come qualcosa di pulsante, e infatti gli spettatori ci sono. E Vermiglio lo ha dimostrato. Come pure diversi altri film in questo periodo stanno avendo molto successo, da Iddu che ha avuto un buonissimo risultato, o Berlinguer la grande ambizione, Il ragazzo dai pantaloni rosa… Poi c’è da dire che nel caso di Vermiglio si sono inanellate tutta una serie di cose fortunate, dal premio a Venezia, alla designazione come film italiano agli Oscar, alla strategia distributiva intelligente che ha fatto Lucky Red, sicuramente premiante. Ma la designazione agli Oscar no, non ce l’aspettavamo proprio, soprattutto da quando abbiamo capito che il nostro competitor era Paolo Sorrentino… e che eravamo davvero Davide contro Golia.
Come sta andando la campagna Oscar?
Anzitutto anche da quel lato abbiamo avuto la fortuna di trovare due distributori americani ‘forti’ che si interessassero e prendessero il film, Sideshow/Janus. E questa era una cosa imprescindibile, fondamentale. Appena loro sono entrati, a quel punto, abbiamo cominciato a costruire la campagna Oscar, che in tutto e per tutto ha i tratti di una campagna elettorale. Cioè si tratta di portare in giro il film e di farlo vedere a più persone possibile, perché il problema dei film piccoli che concorrono all’Academy è che non vengono visti, dunque alla fine non vengono votati. Quindi abbiamo iniziato un tour negli Stati Uniti e anche in Europa di proiezioni, screening, incontri, q&a, interviste… per cercare di coinvolgere più persone possibile. Ovviamente in America funziona così: più fai eventi belli, prestigiosi, con cene, aperitivi, un ospite importante che presenta Maura, più chiaramente la gente risponde, viene a vedere il film, e hai più chance che ti voti. Ci vogliono risorse infinite. A livello economico è veramente uno sforzo enorme, e noi siamo molto in affanno. Al momento nei finanziamenti sono coinvolte Rai Cinema e Cinecittà, parliamo di alcune centinaia di migliaia di euro… e ne servirebbero almeno un milione e mezzo. Poi ovviamente dipende da quanto andremo avanti: c’è la prima deadline, la tappa della shortlist, ma più si va avanti e più le risorse sono necessarie. Stiamo parlando con istituzioni locali, come l’Emilia Romagna, il Trentino, la Provincia di Bolzano.
Un bilancio un po’ più ‘profondo’. Cosa ti porti dentro di questo film?
Una soddisfazione enorme: quella di aver prodotto l’opera seconda di una regista donna, in dialetto trentino e praticamente senza cast. Quindi un’operazione sulla carta estremamente rischiosa, su cui però i fondi – solo ed esclusivamente pubblici – che hanno deciso di aderire sono stati tantissimi: è la prova che si può fare cinema d’autore e nel contempo avere una distribuzione sia nazionale che internazionale nelle sale premiante, come pure i risultati. Non dobbiamo avere più paura di produrre registe donne, anzi il momento è quello di promuoverle il più possibile, come le donne produttrici. In Italia siamo pochissime, e come per le registe facciamo moltissima fatica ad avere ruoli direttivi, posizioni di potere. La tendenza mostra che qualcosa sta cambiando, ma bisogna invertirla, con forza. Ancora oggi su dieci film italiani solo uno è diretto da una regista. In Vermiglio oltre a noi due – regista e produttrice – avevamo la direttrice di produzione, la responsabile della postproduzione, la casting director, la prima la seconda assistente alla regia, la segretaria di edizione, l’acting coach, poi anche le truccatrici, la microfonista e la d.i.t., il braccio destro del direttore della fotografia… che erano tutte donne: è una visione che abbiamo avuto insieme ad Alice Rohwacher, che io porto avanti. Ah, a Vermiglio avevamo perfino una macchinista, cosa piuttosto rara sui set!
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