Giacomo Leopardi aveva capito tutto. Sull’amore, ad esempio. O sulla politica. E sulla leggerezza necessaria a contrastare la fatica dell’esistenza. “Per parlare di questo ridicolissimo tempo bisogna usare le armi del ridicolo”, scriveva nelle sue Operette morali. Molto citate dal nuovo film di Davide Ferrario, La luna su Torino, un lavoro a basso budget e alta tecnologia che parte dalla bizzarra constatazione che il capoluogo piemontese sorge sul 45° parallelo, esattamente a metà strada tra Polo Nord ed Equatore. In questa città inconsueta, specialmente se ripresa dall’alto, coabitano in una villa bellissima ma ipotecata ereditata dai genitori, Ugo, Maria e Dario, tre anime inquiete alla ricerca della felicità. Il film, che ha avuto la sua anteprima al Festival di Roma fuori concorso, uscirà il 27 marzo con Academy 2, dopo le anteprime a Torino e Milano. Ne parliamo con il regista.
È passato un po’ di tempo dal suo ultimo lungometraggio di finzione, “Tutta colpa di Giuda”.
In mezzo c’è stato un documentario, Piazza Garibaldi, e tre anni di lavoro. È vero che in Italia è sempre più difficile produrre cinema da indipendente e fuori dagli schemi, nonostante i trionfalismi dell’Oscar vinto da Sorrentino. Questo film, come Dopo mezzanotte, è un film a basso costo, senza attori famosi, realizzato senza soldi pubblici con il contributo di FIP (Film Investimenti Piemonte), product placement e tax credit, in 4 settimane di riprese e dieci mesi di montaggio. Il che sarebbe stato impossibile in un meccanismo industriale.
Qual è la metafora contenuta nella storia del 45° parallelo?
Contiene lo spirito dei tempi, l’incertezza, lo stare in equilibrio precario e non avere un posto nel mondo. Chi vive sul 45° parallelo è a metà del nostro emisfero e in qualche modo lo sente anche se non lo sa. Io sono nato a Casalmaggiore, che sta esattamente sulla stessa linea, e camminando dritto verso Est si arriva in Mongolia, anch’essa sullo stesso parallelo. A Voghera, sull’autostrada, c’è un cartello giallo che dice “qui siamo a metà tra Polo Nord ed Equatore”. Sei a metà del mondo e non c’è niente da vedere. Ma bisogna cercare di tirare fuori il paesaggio che c’è dietro il paesaggio.
Anche Mario Martone sta girando un film su Leopardi. Come mai questo ritorno di interesse?
Noi tutti siamo confrontati con disastri e pessime notizie, ma bisogna rispondere con ironia, sarcasmo e fantasia. È la stessa idea che c’è in qualche modo ne La grande bellezza, che l’arte è una salvezza rispetto a tutto quello che c’è di brutto. Io, Leopardi, che avevo imbalsamato con le letture liceali, l’ho ritrovato facendo Piazza Garibaldi, dove le sue parole venivano recitate da Luciana Littizzetto. Sembrava una scelta provocatoria ma io credo che in qualche modo lui fosse la Littizzetto del suo tempo. Anche lui usava lo spirito comico, ed era spietatamente ironico e anche romantico, lucidissimo e insieme impotente a cambiare le cose. Con qualcosa della leggerezza di cui parla anche Italo Calvino. E poi lui, dal colle di Recanati, guardava il mondo come noi lo guardiamo dallo schermo di un computer.
Torino è diventata la sua città d’adozione e in questo film appare in una piuttosto luce inedita.
È il posto che conosco meglio, è una città che, da quando sono arrivato, nel ’96, non finisce di suggestionarmi. È una città trasparente e viene spesso usata nel cinema per essere qualcosa d’altro per esempio Oxford in Fuga di cervelli. Il cinema è uno straordinario strumento di promozione come dimostra il rapporto tra La grande bellezza e Roma, anche se Roma non ha bisogno di popolarità aggiuntiva. Però io non ho necessariamente un rapporto idilliaco con Torino: in Tutta colpa di Giuda ho girato al carcere delle Vallette, in Dopo mezzanotte ho mostrato la divaricazione tra la Mole e la periferia della Falchera, qui sono andato a cercare luoghi notturni e lunari.
Ha scelto un cast di attori non conosciuti, a partire dai tre protagonisti Walter Leonardi, Manuela Parodi e Eugenio Franceschini.
Mi è sempre piaciuto lavorare con attori non conosciuti e non usurati. L’ho fatto anche con Valerio Mastandrea ai suoi inizi in Tutti giù per terra. Le facce conosciute rischiano di diventare zavorra.
Ha di nuovo sperimentato con la tecnologia.
Sì, ho impiegato la Canon 300 che ha permesso di non usare luce artificiale, così il film è anche ecologico. E poi era tutto wireless, niente cavi sul set, il che ha permesso di velocizzare. Poi abbiamo usato i droni che con un costo accettabile, di circa 900 euro al giorno, permettono di fare riprese aeree, di stare vicini ai personaggi. La visione dall’alto rende nuovi i posti che vedi tutti i giorni.
È un film sulla precarietà?
No, è un film sulla ricerca della felicità. )
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