“Stay hungry, stay foolish”. Cosa c’era dietro il sacro fuoco che ha portato Steve Jobs a diventare il re dell’informatica e, dopo la morte, un’icona contemporanea e quasi un santo laico? Va a fondo nel mito cercando di dissacrarlo Steve Jobs, il film di Danny Boyle, regista inglese premio Oscar per The Millionaire, scritto da un altro premio Oscar come Aaron Sorkin (The Social Network, Newsroom), basandosi sulla biografia di Walter Isaacson, un libro che ha venduto milioni di copie. Il film ha un impianto decisamente teatrale e ritrae il genio dell’informatica in tre momenti topici: il lancio del primo Macintosh, il debutto della NeXT e il primo iMac, col ritorno in grande stile alla Apple da cui era stato cacciato. Tre momenti che si collocano, rispettivamente, nel 1984, nel 1988 e nel 1998. Lunghi dialoghi che sembrano partite di ping pong, lunghe camminate nel backstage dei teatri con addosso l’adrenalina e il sentimento di giocarsi il tutto per tutto ogni volta, tra rivalità, invidie, incapacità di provare sentimenti, doppiogiochismo. Una fantastica prova d’attore per Michael Fassbender, che interpreta il fondatore della Apple con mimetismo assoluto, per Kate Winslet nella parte del braccio destro ed esperta di marketing Joanna Hoffman. Nonché per Seth Rogen che è Wozniak, il co-fondatore della Apple che si sente perennemente fregato e scavalcato dall’ex socio ingombrante, e per Jeff Daniels l’ex CEO John Sculley.
Il film, che negli Stati Uniti, ha deluso al box office (ma c’era da aspettarselo perché non indulge nella celebrazione del personaggio), uscirà in Italia il 21 gennaio con la Universal. Danny Boyle è venuto a Roma e ha incontrato un’affollata platea di giornalisti raccontando alcuni retroscena della lavorazione. Si parte da una domanda in qualche modo “etica” che si pone nel film proprio Steve Wozniak: si può essere un uomo di talento, addirittura geniale, e contemporaneamente una brava persona? Nel caso di Jobs, al cinema già raccontato da Joshua Michael Stern nel 2013 e soprattutto dal documentario del Premio Oscar Alex Gibney (Steve Jobs: The Man in the Machine), le due cose sembrano difficili da mettere insieme. La sua storia personale di bambino scartato da una prima famiglia di genitori adottivi e poi preso “in prova” dai Jobs, perché la madre biologica nel primo anno non sembrava disposta a firmare le carte – tra l’altro il padre naturale era un siriano emigrato negli Stati Uniti nel 1954 – lo perseguita spingendolo inizialmente a rifiutare la figlia Lisa, nata da una relazione con una pittrice hippie. Tanto da negare questa paternità in un’intervista a Time. Eppure si chiama proprio Lisa il suo primo personale computer dotato di mouse. Contraddizioni profonde che la pellicola restituisce molto bene, rendendo anche il punto di vista di tutte le altre persone coinvolte, che si trovano a subire la determinazione e la mania del controllo di Jobs.
“Premesso che lui per me non è un eroe, la cosa che mi ha affascinato di più mano mano che entravo in questa storia – spiega Boyle – è stato rintracciare il suo dolore. Nell’84 ha già un patrimonio di 400 milioni di dollari e non riesce a superare di essere stato abbandonato dai genitori biologici, un dolore che lo ha formato e che si porterà dentro tutta la vita, ecco perché è diventato un maniaco del controllo, ecco perché ha creato prodotti end-to-end, sistemi chiusi, una filosofia che lo rappresenta persino nel rapporto con la figlia. Mettiamo in fila i fatti della sua vita e scopriamo con questo film che alla fine quello che ha messo in questi prodotti è l’amore, perché cercava approvazione, cercava di essere amato. E noi siamo totalmente connessi a questi prodotti, affidiamo segreti che mai scriveremmo sui diari, abbiamo accettato l’idea di questo amore”. Anzi, quegli oggetti hanno rivoluzionato tanto profondamente la nostra vita che non riusciamo a separarcene, ce li portiamo persino a letto. Ed era proprio questo il sogno di Jobs, far entrare la macchina nel quotidiano di ognuno di noi.
Il film ha dovuto affrontare l’opposizione strenua della vedova di Jobs, Laurene Powell. E’ arrivata a telefonare agli attori che la produzione stava prendendo in considerazione per dissuaderli e un paio di loro hanno effettivamente rinunciato. “È stata dura – conferma Boyle – volevamo rispettare il suo dolore e la sua volontà, ma allo stesso tempo volevamo fare il film. Ho deciso di andare avanti per la mia strada perché, alla fine, il nostro lavoro non la coinvolgeva: parliamo di un periodo della vita di Jobs che è precedente al loro matrimonio, avvenuto nel ’91, e comunque non viene mai citata direttamente. Come già è accaduto per The Social Network, qui si parla di figure pubbliche di grande rilevanza per tutti, e io credo che non si debba smettere di fare film o scrivere libri su questi personaggi anche se la Apple o Facebook hanno un potere enorme, e dunque anche il potere di bloccarti”.
Un’altra sfida è stata trasformare il monumentale copione di Sorkin, un testo puramente teatrale, centinaia di pagine di dialoghi senza neanche una descrizione, in un pezzo di cinema. “Il teatro, pur essendo uno spettacolo dal vivo, al contrario del cinema, pone una barriera tra la rappresentazione e lo spettatore, è immersivo solo nel migliore dei casi, ma sempre fino a un certo punto. Io, invece, volevo che questo film fosse il più immersivo possibile, volevo far sentire lo spettatore lì con Steve e gli altri protagonisti, volevo farli essere al loro fianco nel corso delle loro battaglie verbali. Aaron è stato sempre molto disponibile, flessibile, e abbiamo fatto alcune variazioni rispetto allo script originale: per esempio nella scena del confronto tra Jobs e Wozniak nel terzo atto, che io volevo avvenisse in pubblico, davanti a quelli che erano già i figli dell’era-Jobs, e non in privato come aveva scritto Sorkin. Anche la scena in cui Steve chiede a Johanna Hoffman come mai loro due non fossero mai finiti a letto assieme, è stata aggiunta: è un aneddoto che la stessa Hoffman aveva raccontato a Kate Winslet e io ho voluto inserirlo nel racconto, Aaron ha accettato senza problemi”.
E’ chiaro che c’è stata una forte identificazione tra regista e personaggio. “Come regista cerchi di creare cose che non esistono e poi Jobs, che è stato spesso accusato di rubare idee agli altri, di non avere le reali capacità e di non essere ad esempio un ingegnere, dunque faceva qualcosa che anche un regista fa, era come un direttore d’orchestra che suona non un singolo strumento ma l’intera orchestra”.
Poi parla della notevolissima interpretazione di Fassbender: “Michael è straordinario, lui non impara il copione, lo assorbe. Abbiamo iniziato le riprese in gennaio, e già a novembre lo leggeva e recitava ad alta voce per tre o quattro volte al giorno, e ha continuato a farlo ogni notte durante le riprese. Sul set non lo ha mai guardato, non ha sbagliato mai una parola, e anzi correggeva gli altri: lo conosceva meglio di quanto non lo conoscesse Sorkin. Lo ha letteralmente assorbito, attraverso la pelle, è stato un processo osmotico. D’altronde questo è l’unico modo di affrontare un copione di Aaron, che altrimenti finisce con l’intimidirti”.
A chi gli chiede se sia rimasto deluso dai risultati ottenuti ai botteghini americani, dove finora ha incassato poco più di 17 milioni di dollari, Boyle risponde di no, perché “il nostro non è certo un blockbuster, è un film che richiede molto impegno da parte dello spettatore. Forse, se abbiamo sbagliato qualcosa, abbiamo sbagliato nella distribuzione, partendo troppo in grande invece di procedere per gradi, lasciando che il pubblico aumentasse grazie al passaparola”.
Il regista australiano, è noto per il suo debutto nel lungometraggio con il musical 'The Greatest Showman'
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