Il film si concentra moltissimo sul periodo della dittatura, del terrore e dei desaparecidos in Argentina, che ha segnato fortemente la sua vicenda umana. Daniele Luchetti ha scelto intelligentemente di circondarsi di un cast argentino per raccontarlo al meglio. Rodrigo De La Serna interpreta Bergoglio dal 1961 al 2005. Sergio Hernandez dal 2005 al 2013, a ridosso dell’elezione. La pellicola sarà distribuita anche come miniserie televisiva in quattro puntate da 50 minuti, in tutto il mondo, e tra circa un anno e mezzo anche sulla tv italiana. Per ora c’è un’anteprima speciale, la settimana prossima, organizzata dal Vaticano per settemila bisognosi.
Come si gestisce un film su un personaggio pubblico così popolare, raccontando al contempo una pagina di storia così drammatica?
Tutto nasce da una proposta di Valsecchi, il produttore. Siamo andati a Buenos Aires sulle tracce del papa, e abbiamo incontrato chi diceva di conoscerlo, e in alcuni casi lo conosceva veramente. C’era anche chi lo aveva visto solo di sfuggita, magari da bambino. Non trovavo cose veramente interessanti, mi mancava una linea narrativa. Ma poi qualcuno mi ha detto “Jorge era un uomo costantemente preoccupato”. E’ stata la chiave di volta. Ho capito che dovevo raccontare il motivo per cui lui oggi è così, gli inferni che ha attraversato. E’ la storia di un uomo che alla fine della propria vita arriva a toccare il punto più alto di quello che voleva fare, cioè aiutare il prossimo. Era partito come un semplice lavoro ma poi questo film per me è diventato essenziale, e me ne sono innamorato.
Qual è stata la sua principale preoccupazione durante la lavorazione?
Quella di non fare un santino, di non dare gomitate allo spettatore dicendo: ‘lo vedi? Già si capiva, che sarebbe diventato papa’. Ho provato a calarmi nel punto di vista di un argentino e questo è stato possibile grazie ai miei collaboratori, soprattutto lo sceneggiatore Martin Salinas, a cui ho chiesto di sorvegliarmi. E’ come se un argentino venisse qui a fare un film su un personaggio italiano importante, l’errore è sempre dietro l’angolo, si rischia di spettacolarizzare. Ho chiesto: aiutatemi a non fare un film da turista.
Subito dopo la nomina, tante voci sono girate sul papa e sul suo rapporto con la dittatura. Come ha affrontato questo aspetto?
Ho solo seguito le leggi della narrazione. Sono stato avvicinato da loschi individui col bavero alzato, che mi hanno detto ‘guarda, che Bergoglio era implicato’, però poi queste affermazioni cadevano di fronte alla credibilità della fonte. La Chiesa che ho conosciuto io è una Chiesa in cui si racconta tutto e il contrario di tutto. Ma quando racconti una storia devi stare dalla parte del personaggio, e il Francesco che ho trovato io era così limpido che questi aspetti, proprio, col suo personaggio non c’entravano. Ho raccolto sul campo solo ciò che mi sembrava veramente credibile.
Questo film ha cambiato il suo rapporto con la religiosità?
Non credevo, ma ora credo nelle persone che credono. Ho incontrato persone veramente strabilianti, dal prete di strada al vescovo di Buenos Aires, e il loro modo di lavorare mi ha sedotto.
Ha affrontato qualche genere di ricerca, dal punto di vista storiografico?
Mah, la sceletta degli eventi del film è in pratica quello che si trova in rete, da Wikipedia a mille siti che si copincollano le informazioni a vicenda. E’ tutto di dominio pubblica, ma non basta a inventarsi un film. Quello che conta è la testimonianza emotiva, più che la cronologia dei fatti. Però ho voluto che mi affiancasse uno sceneggiatore argentino, con una formazione storico-politica importante.
Gli attori che interpretano Bergoglio sembrano molto somiglianti. Come li ha scelti e diretti?
Sinceramente all’inizio non li trovavo così somiglianti, oggi direi di sì. Ma ho chiesto loro di evocare il papa, più che di somigliargli fisicamente. Il film è girato in spagnolo. Pensa che possa servire anche agli argentini, per riflettere sulla loro storia? Non sono io a dover insegnare loro come fare i conti con la loro storia. Il tema è complesso, va trattato con rispetto, e a loro non manca la cinematografia sui desaparecidos e la dittatura. Mi piacerebbe invece che i giovani, soprattutto italiani, possano riflettere su come sia possibile il terrorismo di Stato e su come una nazione possa venire oppressa da i suoi stessi governanti, in nome della sicurezza, calcolando che parliamo di una cosa successa in tempi relativamente recenti.
Avete inviato lo script in Vaticano, per approvazione?
Non c’era nessuno disposto a leggerlo. Ci siamo trovati soli di fronte alla scelta: fare il film o non farlo. Ma Monsignor Karcher, che è il cerimoniere del papa, lo ha visto, e anche se era molto prevenuto alla fine ci ha rassicurati. Ha detto che il film era buono e soprattutto veritiero. E’ il primo film su un papa ancora in vita.
Questo le ha creato imbarazzi?
Più che ad altri film sui papi mi sono ispirato a The Queen, che correva rischi analoghi. Anche lì c’era l’agiografia dietro l’angolo, ma lo stile asciutto del cinema inglese va dritto al cuore delle cose. Ho smesso presto di pensare che Francesco è vivo e vegeto e abita a un chilometro da casa mia. Questo mi avrebbe aiutato a tradirlo. Ho smesso anche di leggere le notizie che lo riguardavano, durante la lavorazione. Mi sono fermato al momento in cui è nominato papa, su cui il film si chiude. Ora so che è in Africa e gli auguro un’ottima permanenza.
Il suo Francesco è dialettico, dinamico. Non sembra una figurina su un piedistallo. Chi l’ha aiutata a tracciare questo ritratto?
Tanta gente, come le dicevo. In Argentina praticamente tutti dicono di aver conosciuto il papa, basta chiedere a qualcuno per strada. Sono stato anche dal suo barbiere. E ho chiesto un po’ di tutto. Alcune cose le tieni, altre le modifichi. Ho chiesto anche come faceva colazione, mi hanno detto che di solito mangia una banana in piedi. Ma nel film mangia pane e latte, alla fine.
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