“Mio fratello è figlio unico recupera la migliore tradizione italiana della commedia che, partendo dal dato umano, sfonda nel sociale e politico e coniuga il cinema popolare con la qualità artistica, non rinunciando al fenomeno divistico del momento (ndr. leggi Scamarcio). Inoltre il nostro film grazie al coinvolgimento produttivo di Warner Bros. Pictures rompe il duopolio Rai Cinema e Medusa”. Riccardo Tozzi di Cattleya è convinto che l’ultimo lavoro di Daniele Luchetti, liberamente tratto dal romanzo “Il fasciocomunista” di Antonio Pennacchi (forse polemica l’assenza dello scrittore alla conferenza stampa?) abbia le carte in regola, oltre che per Cannes, per essere ben accolto in sala dove arriverà il 20 aprile in 500 copie. Già una commedia in cui si ride spesso, ma che all’improvviso si colora d’amaro, guardando a un periodo ‘caldo’ di storia italiana, dal 1962 al 1974, ambientata soprattutto nella razionalista Latina, e poi a Roma e a Torino. Le idee e i comportamenti di destra e sinistra riletti attraverso le vicende di due giovani fratelli, profondamente diversi, che amano la stessa donna. Accio, un convincente Elio Germano nei panni del fratello minore, emotivo, scontroso, a suo modo ribelle, pronto a cercare protezione nelle parole d’ordine e nelle imprese fasciste. Manrico/Riccardo Scamarcio il fratello maggiore bello, solare, estroverso, pronto a entrare da protagonista nell’estremismo di sinistra di quegli anni. Accanto a loro i genitori, Angela Finocchiaro e Massimo Popolizio, il commerciante fascista/Luca Zingaretti e la moglie insoddisfatta/Anna Bonaiuto. Si avverte, forse un po’ troppo, il tocco di Stefano Rulli e Sandro Petraglia nella sceneggiatura e il ricordo va subito a La meglio gioventù. Ma loro affermano di averla dimenticata in fase di scrittura: “Il periodo storico affrontato è diverso, si ferma a poco prima della nascita del terrorismo rosso del libro di Pennacchi abbiamo ripreso l’energia dei personaggi, la loro voglia di misurarsi con la realtà, anche sbagliando. All’inizio il film era costruito solo intorno a Accio, poi è venuta la necessità di appoggiarsi sul fratello Manrico”.
Luchetti come ha scoperto il romanzo di Antonio Pennacchi?
Sono stato catturato dal tono canzonatorio di questo libro autobiografico propostomi da Cattleya. Durante la sceneggiatura e le riprese è uscito altro, qualcosa di emozionante e forte che questa storia poteva accettare. E’ un film che ho sentito molto, ho infatti guardato a quel mondo con affetto.
Perché ha cambiato il titolo?
Il film durante la lavorazione ha preso un’altra strada e il titolo originale “Il fasciocomunista” stonava. Poi un giorno per caso, mentre cercavo un nuovo titolo, dall’iPod appena acquistato sono arrivate le note della canzone di Rino Gaetano “Mio fratello è figlio unico”.
Come è stato misurarsi con il personaggio di un giovane fascista?
15/20 anni fa avrebbero raccontato Accio come un mostro. Nel nostro cinema l’ultimo film che ricordo abbia raccontato i fascisti degli anni più recenti è San Babila ore venti: un delitto inutile di Carlo Lizzani. In fondo ho guardato con affetto a chi in quegli anni era preso dalla corrente della Storia e faceva delle scelte che avrebbero condizionato la sua vita.
Benché sia nato nel ’61, lei si è qui cimentato con gli anni ’60.
Provo nostalgia e un po’ d’invidia per quell’epoca, ho vissuto invece gli anni ’70. Comunque racconto quell’arco di tempo con ironia e con desiderio di vedere quei corpi agire. Sembra che da allora siano passate 20 generazioni. Il mio distacco è ironico, ma non qualunquista, non tutti sono uguali, è evidente chi sbaglia.
C’è nostalgia nel raccontare quel periodo di lotta tra destra e sinistra?
Sì, per quanto i discorsi fossero talvolta sconclusionati e superficiali, la voglia di politica e di cambiare il mondo attraversavano allora gran parte della società. Ho comunque voluto anche ironizzare sul ’68, prendendo le distanze da coloro che l’hanno rappresentato in modo paludato. Ho messo in scena un’Italia spaccata in due, in cui dominano l’eccesso e l’abitudine ad essere divisi. E tutto questo a cominciare da questa famiglia operaia.
Il finale è diverso da quello del libro?
Sì, Accio nel romanzo torna in seminario e attraverso la confessione si pente del suo passato. Abbiamo scelto invece un altro tipo di ripiegamento: nelle immagini finali Accio ricomincia da sè, da quel figlio non suo, dal futuro che lo attende. La scena che precede, quella dell’occupazione delle case, è un gesto deideologizzato. Finalmente Accio non parla più di ideali, ma riparte dalle esigenze concrete degli ultimi, e una volta sistemata la famiglia, fa i conti con l’elaborazione del lutto e rivede se stesso, quand’era ragazzo.
Il film per come è girato, spesso con la macchina a mano, dà una sensazione di freschezza e autenticità.
Ho lavorato in maniera diversa da quella cui sono abituato, utilizzando spesso due cineprese in contemporanea, pedinando gli attori per catturare l’imprevedibile, girando la stessa scena in quattro modi diversi per poi montare le immagini migliori. Ho chiesto agli attori, soprattutto a Germano e Scamarcio, di non provare e di rinunciare sul set a tutte le scorciatoie attoriali, tant’è che ogni volta che accadeva suonavo sul set un campanello. Abbiamo girato come si trattasse di un documentario, gli interpreti non avevano posizioni o sguardi da rispettare. C’era il rischio del clichè nel rappresentare il giovane fascista, perciò ho voluto che Germano s’avvicinasse al suo personaggio senza giudicarlo e senza moralismi.
Perché ha preferito per il finale la canzone di Nada a quella di Rino Gaetano?
Il testo è nel contempo didascalico e troppo letterario, e per quanto parli di due fratelli rischiava di sovrastare il film dove il racconto è più sfumato.
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