“Il cinema italiano è morto: si è fermato alla televisione e ha dimenticato il sogno”. A dichiararlo è Daniele Ciprì, fedele direttore della fotografia per nomi che vanno da Marco Bellocchio a Claudio Giovannesi, ma anche regista di opere sui generis quali E’ stato il figlio e La buca. A Cinecittà News racconta i nuovi progetti, aspettando l’uscita in sala dell’ultimo lavoro fatto insieme a Renato De Maria, di cui è orgoglioso: la fotografia straniante e suggestiva di La vita oscena, tratto dall’omonimo romanzo di Aldo Nove.
Che tipo di lavoro ha messo in atto con Renato De Maria?
Mi sono confrontato con la videoarte, adattato alla modernità visiva e inaugurato, chissà, una via nuova. Merito, ovviamente, della grande idea di base e di un poeta come Aldo Nove, grande eppure non amato. E’ un film che ho adorato, avrei persino voluto produrlo. Lo stimolo che mi dava Renato era tutto nella direzione dell’approfondimento della psicologia umana e, insieme, del racconto visionario delle cose.
Quali peculiarità deve avere un direttore della fotografia contemporaneo?
Deve saper rispettare il volere del regista e mediare con i tempi, che vuol dire mediare anche tra esigenze di produzione e di regia. Possedere una grande tecnica, una padronanza dei mezzi e, all’occorrenza, saper accelerare i tempi per portare a casa la scena. La cosa più importante: non devi mai essere “tu”, ogni film è diverso e devi saper mantenere il tuo timbro cambiando. Ecco perché io sperimento di continuo, non mi piace avere uno stile preciso e soprattutto cerco di evitare l’errore più grande: scegliere male e poi annoiarmi su un set.
La differenza nel lavorare con un autore affermato come Marco Bellocchio e con un regista alla sua opera seconda come Claudio Giovannesi?
Il lavoro è lo stesso. Marco è più preparatorio, tradizionale, classico, ha come esigenza principale un lavoro sulle immagini che portiamo avanti insieme: lui come padrone di casa, ma il confronto che abbiamo da anni è sempre basato sulla stima reciproca. Giovannesi racconta invece il disagio e la modernità come un documentarista, ha un modo tutto diverso di fare cinema: con lui mi pongo come collega e tecnico-artista. Non voglio mai sentirmi porre domande, con lui sono tranquillo perché “sente” molto il film che fa.
A quali progetti sta lavorando?
Come direttore della fotografia ho finito Sangue del tuo sangue di Bellocchio, ora stiamo preparando il suo nuovo, tratto dal romanzo di Gramellini Fai bei sogni. Una storia molto drammatica, ambientata dal 1969 al 2000, che ha trasposto in una sceneggiatura davvero bella. Poi, come detto, il nuovo film di Claudio Giovannesi, quello di Francesco Bruni e Il traduttore di Massimo Natale: un film realizzato in quattro settimane con tantissima volontà, completamente diverso da tutti quelli che ho fatto, con atmosfere assai particolari.
E da regista? Ha in programma un nuovo film?
Ho un paio di progetti a dire il vero, uno tratto da un romanzo, l’altro basato su una storia vera. Ma parliamo del 2016.
C’è un tema che le sta particolarmente a cuore e che vorrebbe approfondire sullo schermo?
Ultimamente ho fatto una bella esperienza di lavoro per il Museo Tattile di Ancona sulla cecità. Una tematica che mi interessa moltissimo: in un mondo di immagini in cui si è persa la possibilità di immaginare perché abbiamo tutto, tanto, descritto e filmato, il “non vedere” è una vera sfida per il racconto cinematografico. Mi piacerebbe accettarla, sempre nel segno del surreale e dell’immaginazione.
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