Poco più che una bambina, la quattordicenne Hirut torna da scuola con i libri sotto il braccio quando un gruppo di uomini a cavallo, armati di fucili, la circonda per rapirla. Poco dopo sarà stuprata da uno di loro che, forte di una tradizione di quelle zone rurali, sa di poterla passare liscia, a patto di sposare la sua giovane vittima.
Siamo in Etiopia, non molti anni fa, e quella che ci racconta Difret il coraggio di cambiare, in sala con la Satine, è una storia vera simile a molte altre (il 40% delle adolescenti vengono ancora violentate in nome della Telefa). L’usanza permette di rapire una donna per metterla incinta e poi di sposarla. Una pratica che potrebbe ricordare il matrimonio riparatore in uso nel Meridione d’Italia fino agli anni ’50 del secolo scorso, ma che viene esercitata con particolare violenza e barbarie, come ben si vede nel film di Zeresenay Berhane Mehari. Un film di denuncia che ha appassionato una diva da sempre impegnata come Angelina Jolie. Tanto da esserne diventata coproduttrice e grande sponsor internazionale. “Quando l’ho visto per la prima volta ho pianto per i primi 20 minuti… ma poi ho sorriso per il resto del tempo, pensando che non vedevo l’ora che il mondo potesse vederlo, perché questo film era in grado di provocare un cambiamento”, dice l’attrice in un video che viene proiettato prima della pellicola e che è stato realizzato al Global Summit to End Sexual Violence di Londra.
La storia di Hirut è dunque una storia di cambiamento e di dignità femminile. Perché Hirut, che è riuscita ad uccidere il suo rapitore con un colpo di fucile, rischierebbe di essere linciata (tutto il villaggio è contro di lei) o quantomeno finirebbe in galera per omicidio se non fosse che, dalla capitale Addis Abeba, arriva un’avvocata impegnata nella difesa delle donne con l’associazione Andenet e pronta a invocare la legittima difesa. Meaza Ashenafi, così si chiama l’avvocata, non si arrenderà nonostante i tanti bastoni tra le ruote posti da una società maschilista e arretrata, dove i primi a non rispettare le leggi sono proprio poliziotti e pubblici ministeri arroganti. Meaza riuscirà a portare Hirut via dal villaggio, a curarla e finalmente a difenderla davanti a una corte. Non si tirerà indietro neppure quando si tratta di fare causa al ministro della Giustizia per ottenere che la piena legalità venga ristabilita.
Con un’andamento lineare e la forza scarna del cinema di denuncia, il film racconta una storia vera (l’avvocata Ashenafi è stata insignita dell’Hunger Projects Prize, il massimo premio africano, per il suo impegno in difesa dei diritti delle donne in Etiopia) avvalendosi dell’efficace recitazione delle due protagoniste: l’attrice e poetessa Meron Getnet nel ruolo dell’indomita legale e la giovane e promettente Tizita Hagere, alla sua prima esperienza. Il regista, che è nato e cresciuto in Etipia ma ha studiato in California, spiega: “Con questo film volevo mostrare come il venir meno delle credenze nelle vecchie tradizioni possa migliorare le condizioni di vita. Capire questo contribuirà a formare l’Etiopia del futuro”.
Non sono comunque mancate le polemiche in patria (dove Difret è stato persino bandito per un periodo) ripagate dai molti premi all’estero, in particolare il World Cinematic Dramatic Audience Award al Sundance e il premio del pubblico di Panorama alla Berlinale, per questo piccolo film che è stato apprezzato anche dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Navy Pillay.
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