BOLOGNA. Vi ricordate del tenente Montini e del suo scalcinato gruppo di soldati italiani dispersi sull’isola greca in Mediterraneo di Gabriele Salvatores? Bene, Montini e i suoi furono molti fortunati. Centinaia di migliaia di loro commilitoni, arruolati di leva della Seconda Guerra Mondiale nell’esercito italo-tedesco, non ebbero la stessa sorte. Alla firma dell’armistizio, Silvano Lippi e molti dei suoi compagni furono fatti prigionieri in un’isola greca, chiusi in un campo di detenzione tedesco e poi imbarcati al Pireo verso la Germania. Ammassati in centinaia dentro le stive di barche traballanti, sbattuti su convogli di treni affamati e assetati, Silvano fu uno dei pochi ad arrivare vivo a Mauthausen.
Sì, è vero, è la storia di molti, e molti hanno raccontato. La memoria dello sterminio nazista sembra salda, ma quando Silvano inizia a raccontare davanti alla camera di Giovanni Cioni in Dal ritorno – in competizione nel Concorso internazionale – tutto torna ad essere insostenibilmente presente, a bruciare nel corpo. Silvano, durante le riprese, è a pochi mesi dalla sua morte, non riuscirà a vedere il documentario finito. Ma segue il lavoro di Giovanni Cioni come se il regista fosse un suo braccio, come se dovesse a se stesso e al mondo quell’ultimo sforzo, in pubblico, per tutti.
E’ vero, della sua storia nei campi di concentramento Silvano Lippi ha già scritto un libro (“39 mesi, 60 anni dopo”, edizioni Multimage). Ma quella è cronaca, distaccata, precisa. Qui la memoria è presente, carne, viva, emotiva, insostenibile.
Silvano si forza a dire l’indicibile. Lo abbiamo già sentito, lo abbiamo già letto, cosa succedeva nelle camere a gas, nei forni, nelle camere di tortura. Ma Silvano per noi fa di più, rivive tutto davanti ai nostri occhi e alle nostre orecchie straziate. Di quando, da addetto alle “docce” apriva la porta e doveva districare centinaia di corpi di gassati intrecciati tra loro e immersi nella melma dei loro liquami. Di quando doveva spingere i corpi dentro ai forni con un forchettone. Di quando – e ci mette tanto a dirlo, e sembra impossibile dirlo – un SS lo costrinse ad affogare in un secchio d’acqua un ragazzino come lui, un russo dalla faccia da bambino colpevole di avere sete.
Quando tornò, dopo la guerra, nella sua Toscana, Silvano (uscito da Mauthausen il 7 maggio 1945 con soli 24 chili addosso di pelle e di ossa) cerca di raccontare. Ma era il ’46, nessuno sapeva ancora quasi nulla dei campi di sterminio. Il padre lo guardò come se il suo figliolo desse un po’ i numeri, lo ascoltava sgomento e incredulo, alzava le spalle e alla fine del racconto balbettava: “Se lo dici te…”. Povero figlio, pensava, ha perso la testa. Di fronte a quell’impossibilità di comprensione, di accettazione, Silvano alzò il suo muro di silenzio.
E per i successivi 60 anni decise di seppellire Mauthausen nella parte più buia della sua anima. “Però di notte strillava, si agitava, piangeva”. A raccontare di lui oggi ci sono i suoi figli, Serena e Andrea, che hanno accompagnato emozionati Dal ritorno al Biografilm Festival. “Papà non diceva nulla, solo quando siamo diventati più grandi qua e là lasciava trasparire qualcosa, un frammento, un episodio smozzicato – raccontano – Fino a poco tempo fa non riuscivamo a mettere insieme l’intero quadro, a renderci conto di quale inferno avesse vissuto”.
Agli inizi degli anni Duemila, grazie all’affetto di alcuni amici e al sostegno della famiglia, Silvano decide di aprire lo scrigno di quei ricordi, di scrivere un libro, persino di tornare a Mauthausen, 80enne, con la figlia Serena. “Papà vuoi andare? Papà, dai andiamo. Lo presi e lo caricai in macchina – ci dice Serena – Lui ricordava tutto, ogni minimo particolare, ogni fermata del treno verso Mauthausen. Abbiamo rifatto l’intero itinerario fuori e dentro il campo. E l’anno dopo c’è voluto tornare di nuovo”.
Dal Duemila in poi, Silvano Lippi ha concesso alla sua memoria di tornare libera a volare, a testimoniare. In giro per le scuole, tra i ragazzi delle superiori, che tanto lo amavano. Anche se era dura: “Mentre vi racconto è tutto ancora qui, tutto davanti ai miei occhi, come se fosse adesso” ripete più volte, piangendo. “Sembro stupido che piango ancora dopo tutti questi anni – cerca di scusarsi – Ma ecco, sta succedendo ora, sta succedendo qui, lo vedo di fronte a me. E terribile!”.
Ascoltare Silvano e guardarlo negli occhi mentre racconta, rende la memoria un po’ annebbiata di questo XXI secolo, di nuovo carne viva. Ma non solo il suo ricordo fa male. Fa male – ad esempio – anche fermarsi a pensare: ma se Silvano non avesse deciso di tornare a ricordare e a raccontare, chi avrebbe saputo di lui? I sopravvissuti all’Olocausto hanno la loro memoria, così come i partigiani, i comunisti, gli intellettuali, gli omosessuali, gli zingari. Ogni gruppo di sopravvissuti ha avuto una sua possibilità di essere “riconosciuto” e accudito.
Silvano Lippi era solo, nessuno dei suoi compagni tornò dalla prigionia, nessun gruppo o istituzione o ministero o associazione ha trovato un posto per accogliere lui e la sua memoria. Quei 600mila soldati, ragazzi di leva dell’esercito fascista improvvisamente prigionieri – odiatissimi perché “traditori” – dei tedeschi, finiti nei campi nazisti e negli ancora peggiori campi di detenzione greci, di loro non sembra quasi serbarsi memoria. Come se non appartenessero a nessuno.
Silvano è stato tenace e anche fortunato, se si può dire. E’ scampato centinaia di volte alla morte, è sopravvissuto al dolore, alla pazzia, al panico, e poi ha trovato la forza di raccontare. Ora quel racconto è di nuovo qui, presente e incancellabile. Nelle memorie di Serena e Andrea, nei suoi scritti, nel Dal ritorno di Giovanni Cioni. Il ricordo di Silvano e di quei 600mila da oggi ha finalmente una casa, dentro ciascuno di noi.
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