CANNES – Scoppia a piangere in conferenza stampa, Abderrahmane Sissako, il regista mauritano che ha aperto il concorso di Cannes con Timbuktu. Sono lacrime di commozione e di dolore per il dramma che il suo bel film racconta con ironia e leggerezza, ma che è non meno crudele. “Sono partito da un fatto vero, la lapidazione di una giovane coppia in un piccolo villaggio del Nord del Mali, occupato dai fondamentalisti islamici, per lo più originari di altri luoghi. I due avevano due figli e la colpa di non essere sposati: il video della loro morte è stato messo online dagli stessi assassini, è una scena orribile, che mi ha colpito anche perché di un fatto del genere nessuno parla. I giornali si concentrano su altre cose, ben più futili, e ogni giorno diventiamo più indifferenti”. Il cineasta 52enne, nato in Mauritania ma cresciuto nel Mali, autore di titoli come Bamako e Waiting for Happiness, per la prima volta in competizione al festival, aveva inizialmente pensato a realizzare un documentario sulla storia di questa coppia, vittima della furia dei jihadisti. Ma ha poi deciso di costruire una struttura narrativa vera e propria che ruota attorno alla famiglia di Kidane, un allevatore tuareg che vive con la moglie e la figlioletta di 12 anni in una tenda tra la periferia di Timbuktu e il deserto del Sahara e la cui serenità è spezzata da una lite con un pescatore che gli ha ammazzato una vacca.
Ma intanto in città hanno preso il sopravvento i jihadisti, originari di altre zone, ad esempio libici, che impongono con rigore e crudele stupidità un’interpretazione del Corano estrema: musica e sigarette sono vietate, le donne non possono andare in giro senza guanti neri e calzettoni, non è consentito neppure giocare a pallone. I trasgressori sono puniti con le frustrate o l’incarcerazione e a nulla vale l’opposizione dell’imam locale, che cerca di riportare alla ragione. “Ho scelto uno stile leggero con scene ironiche, come la partitella di calcio mimata in mancanza di una palla o la pescivendola che rifiuta di indossare i guanti in nome del buon senso, perché ogni essere umano ha una sua complessità, compresi i fondamentalisti, e volevo mostrarne la fragilità”, dice ancora il cineasta. Che li ritrae anche nella loro dipendenza dalla tecnologia – automobili e video telefonini, con cui amano riprendersi o filmare le proprie vittime per postarle su YouTube. Sissako non ha potuto girare a Timbuktu e ha dovuto spostarsi in Mauritania sotto la protezione dello Stato. “Sarebbe stato un vero rischio portare la troupe in una città dove pochi giorni prima dell’inizio delle riprese c’era stato un attentato suicida”, spiega. Ma non si considera coraggioso: “Il vero coraggio è quello di chi rimane lì combattendo una lotta silenziosa, che magari vuol dire cantare una canzone nella propria testa”. Timbuktu, che è coprodotto dalla francese Sylvie Pialat, ha immagini di grande bellezza che restano impresse nella memoria, eppure il suo autore non ha cercato l’estetica fine a se stessa: “È la cosa che mi fa più paura al cinema, anche se il cinema è linguaggio e ognuno, proprio come in una lingua, parla col proprio accento ed esprime la propria cultura. È facile mostrare l’orrore nudo e crudo ma questa arte ci offre altri strumenti di comunicazione. Così ho deciso di creare una distanza rispetto a certe scene di violenza e ho inserito il personaggio della pazza, interpretata dalla grande danzatrice Kettly Noël, perché una donna folle, anche secondo gli islamisti, può cantare, danzare, andare in giro senza il velo e fumare”.
L’orrore in presa diretta, al contrario, è l’ingrediente principale di Silvered Water Syria Self-Portrait, realizzato dal siriano Ossama Mohammed con la giovane filmaker curda Wiam Simav Bedirxan, che l’ha contattato via skype a Parigi – dove vive in esilio dopo le minacce di morte ricevute per aver chiesto la liberazione dei prigionieri politici siriani durante una tavola rotonda a Cannes 2011 – chiedendogli a bruciapelo: “Se tu fossi qui a Homs, che immagini filmeresti?”. Da questo incontro tra due diverse generazioni unite da una stessa urgenza di cinema e verità, è nato un film che non può lasciare indifferenti. Adesso lei, che ha vissuto l’assedio di Homs e ha perso il figlio, la madre e il fratello, è tra i civili usciti dalla città appena liberata dai ribelli e sta raggiungendo Cannes dalla Turchia. I due registi si incontreranno qui sulla Croisette domani. “Simav rappresenta una nuova generazione di cineasti, le immagini che mi inviava già potevano raccontare una storia”. Ma a quelle immagini se ne sono unite molte altre, le riprese di 1.001 youtubers, vittime e carnefici, che Ossama Mohammed promuove al ruolo di filmaker in una narrazione collettiva e stratificata. Attraverso quelle sequenze sghembe, sfocate e urlate, spesso insanguinate, il film, proposto a Cannes fuori concorso, cresce come uno spaventoso e soffocante autoritratto di un paese sotto assedio e votato alla distruzione, dove la lotta per la libertà viene sedata nel sangue dall’esercito e dai sostenitori di Bashar. Un impressionante collage di pestaggi, uccisioni, cadaveri scempiati, esplosioni, torture, umiliazioni, manifestanti massacrati di botte, bambini uccisi, gatti mutilati che toglie il respiro. “Mentre mi chiedevo che cosa potevo fare per il mio popolo, ho visto su YouTube la scena di un adolescente arrestato e torturato. Per me è la scena primaria, mi serve come archetipo della violenza, anche se doveva servire, secondo chi l’aveva realizzata, a diffondere la violenza”, spiega il cineasta sessantenne, che usa invece alcune immagini di Charlot boxeur in Luci della città come possibile antidoto alla sofferenza insostenibile. Solo un sorriso ci salverà?
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