Dopo il successo ottenuto ai festival di Tribeca e Toronto, il 19 dicembre arriva nelle sale italiane Una notte a New York, il debutto alla regia di Christy Hall, già apprezzata come sceneggiatrice di It Ends With Us – Siamo noi a dire basta. Questo film, distribuito da Lucky Red, vede protagonisti Dakota Johnson, anche produttrice, e il premio Oscar Sean Penn.
Il film nasce da una sceneggiatura inizialmente concepita per il teatro, inserita nella prestigiosa lista delle opere non prodotte più apprezzate di Hollywood. È stata proprio Dakota Johnson a spingere affinché la storia trovasse la strada del grande schermo, proponendo il progetto direttamente a Sean Penn.
La trama si svolge nell’arco di un unico viaggio in taxi, dal JFK Airport a Manhattan. Una giovane donna, assorta nei suoi pensieri e con un’aria malinconica, inizia una conversazione con il tassista Clark, un uomo schietto e privo di filtri. Quello che inizia come un banale scambio di battute si trasforma presto in un dialogo intimo e profondo, capace di rivelare grandi verità nascoste sotto l’apparente semplicità del momento.
Il film esplora il potere delle connessioni umane, anche quelle più fugaci, mostrando come una conversazione casuale possa inaspettatamente lasciare un segno indelebile. La regia di Christy Hall, essenziale e poetica, accompagna questo viaggio attraverso emozioni autentiche e riflessioni universali, rendendo la pellicola un’esperienza unica e coinvolgente.
“L’esperienza unica di chiacchierare con un tassista sboccato di New York sta innegabilmente facendo la fine dei dinosauri, rendendo questo film una sorta di capsula del tempo – commenta la regista Christy Hall – È questa una piccola storia con implicazioni universali. La nostra connessione con gli altri, in particolare con coloro che non pensano, parlano o agiscono esattamente come noi, si sta estinguendo. Ma non fatevi illusioni. Un estraneo può cambiarci la vita, se solo siamo disposti ad ascoltare”.
Circa la scelta di girare in uno spazio ristretto: “E’ una metafora. Il taxi stesso rappresenta l’umanità e ci permette di riflettere sulla solitudine. Sali su un taxi e sei in uno spazio circoscritto e claustrofobico, dove puoi sentirti solo. Ma se apriamo la finestrella e ci apriamo alla comunicazione, capiamo che ci sono tante opportunità di collegamento con l’essere umano. Ma dobbiamo avere il coraggio per farlo”.
In taxi, poi, si parla con perfetti sconosciuti, anche di cose molto personali. Viene da chiedersi se per la regista sia stata un’esperienza reale: “E’ una storia di finzione ma suona personale. Io non ho mai parlato di questo genere di cose con un tassista, ma vivendo per 10 anni a New York mi è capitato di parlare con sconosciuti ovunque: sul treno, in strada. A New York la gente si parla spesso. In più di 300 lingue. E’ un’esperienza universale. Puoi dire agli estranei cose che non puoi dire ai tuoi migliori amici, a tua sorella, a tuo fratello, perché non lo rivedrai più e il giudizio scompare. Spero che vedendo il film anche coloro a cui non è mai capitato si possano aprire a questa possibilità. Un’esperienza che ti può cambiare del tutto”.
D’altro canto, New York è un altro protagonista: “ci vivo da più di dieci anni, sono ufficialmente cittadina. So quanto avrei voluto essere precisa nel rappresentare la città e il tragitto, che i newyorkesi conoscono benissimo. Per poterlo fare ho pensato di seguire realmente i personaggi all’interno di un taxi con macchine da presa esterne. Ma erano tutte riprese in notturna, non avrei potuto controllare meteo e traffico. Allora ho girato in studio, ho pensato di usare blu e green screen, ma costava troppo. Mi sono informata con una nuova tecnica. Ci sono pannelli con dei led. Abbiamo girato due volte il tragitto reale, avevamo tutte le immagini. Dopodiché queste immagini venivano proiettate in 4k mentre noi lavoravamo alle scene in taxi, e con una serie di filtri ha permesso di rendere un effetto molto reale. E ho potuto lavorare a dei capitoli nel film che corrispondevano alle parti di sceneggiatura in maniera esatta”.
Nel film si ha un’impressione di “spazio sicuro” anche per la protagonista femminile, che nella vita è invece vessata da un rapporto opprimente. Ma lo deve guadagnare con fatica. “Non credo che una donna si possa sentire veramente sicura in nessun luogo – ammette Hall – e non penso che lei si senta così. Ci guardiamo sempre le spalle ogni volta che usciamo di casa. Sicuramente le donne guarderanno questo film in maniera diversa rispetto agli uomini e questo è meraviglioso. All’inizio non si sente a suo agio, lei stessa al principio flirta, prende le misure, è lei che permette certi livelli della conversazione, oppure allontanandola, portandola da un’altra parte. Gli attori dicono esattamente ogni parola che ho scritto, c’è questo gioco costante, noi donne siamo diventate maestre di conversazione, per cercare di portarle dove vogliamo quando prendono una brutta piega. Siamo alchimiste. La liberazione totale arriva dopo aver superato il tunnel. Lui racconta i suoi errori e lei capisce che può fare lo stesso”.
Il ruolo degli uomini è sempre una questione fondamentale nel cinema moderno. La potenziale tensione erotica tra uomo e donna si scioglie nel corso del film in qualcosa di diverso, e più profondo: “Gli uomini per me sono gente – riflette Hall – ce ne sono di meravigliosi, ho fantastici fratelli con un cuore grande, fantastici mariti e padri, e altri che non hanno risolto la tensione tra parte demoniaca e angelica. Ma io volevo che si creasse tra questi due personaggi una conversazione tra adulti, sulle idee che hanno sempre caratterizzato lo scontro tra i sessi. Stereotipi, archetipi, in grande libertà, per il loro essere sconosciuti. Avevo anche scritto una scena in cui Mickey chiede a lei se vive da sola. Ci prova, in sostanza. Forse a lui sarebbe piaciuto essere invitato e forse a lei avrebbe potuto piacere passare una notte con lui. Ma era l’ultima scena girata e quando ci siamo arrivati, il viaggio tra i due era reale, e Sean mi ha chiesto “sei sicura? Dopo tutto quello che si sono raccontati, ci proverebbe? Io ho delle figlie… magari ne avrebbe voglia ma non lo farebbe, per rispetto…”. Ne abbiamo parlato, l’abbiamo girata ma al montaggio, come del resto anche Sean mi aveva detto, ho capito che quella scena non c’entrava più nulla. Mi sono chiesta cosa volessi dire. Se fossero finiti a letto insieme sarebbe risultato deterministico. Volevo far capire che poteva esserci anche un altro tipo di rapporto. Se il sesso non esistesse, i rapporti sarebbero più facili, ci toglieremmo un sacco di complicazioni, ma sarebbe tutto meno interessante. Non sarebbe stato nemmeno sbagliato che un uomo ci volesse provare, ma eliminando la scena potevo renderlo un po’ più saggio”.
Altro tema è l’uso della tecnologia: “Non volevo certo demonizzarla, la società è andata avanti, tutti abbiamo un telefono in tasca. E’ ingenuo pensare di buttare via i telefoni e i computer e pensare che tutto torni come prima. Volevo certamente celebrare l’importanza delle connessioni e dei legami umani attraverso la conversazione, ma la conversazione può avvenire sia faccia a faccia che al telefono. Amo Hook di Spielberg ma oggi non posso raccontare una storia che finisce con qualcuno che butta il telefono dal balcone. Volevo esplorare i segreti che tutti abbiamo nascosti nel telefono. Potrei parlare tranquillamente con voi e incasinare la mia vita mentre messaggio con qualcuno sul mio cellulare”.
Sul lavoro con gli attori, chiude: “Sono due maestri del loro mestiere, e questo mi ha aiutato, essendo il mio primo film. Non volevo comunque fare troppe prove, sono due estranei, volevo che il rapporto restasse naturale. Il primo giorno ci siamo solo seduti due giorni a casa di Sean facendo una lettura delle sceneggiatura, per capire più che altro le intenzioni all’interno della scena. Un po’ come stare a teatro. Mi chiedevano se potessero dire o no una particolare parola. E io annotavo. Non abbiamo cambiato molto ma abbiamo parlato delle emozioni. Il secondo giorno, invece, Sean si era stufato delle letture. Si è messo seduto su una sedia, un’altra l’ha messa davanti, ha preso una scopa e con lo scotch ci ha attaccato uno specchio per costruire uno specchietto retrovisore. Voleva vedere come funzionava realmente questo tipo di comunicazione. Sono andati avanti a memoria e io non li ho fermati. E’ stato uno dei momenti più belli e divertenti della mia carriera. A quel punto li ho salutati e gli ho detto ‘ragazzi, ci vediamo a New York!”
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